Salvato dopo 7 notti all'addiaccio racconta: "Ecco come sono sopravvissuto"

Michele Benedet, salvato dopo sette giorni sulle Prealpi in Val Venzonassa : «La sete è stata la cosa più terribile Sentivo male dappertutto, era come avere una barra di ferro che mi attraversava il corpo. Ho mangiato soltanto piccoli pezzi di ghiaccio» 
Gianpaolo Sarti

TRIESTE.  Sette giorni, sette notti. Quasi il titolo di un film. Prima o poi, chissà, diventerà proprio la trama di un film la storia vera di Michele Benedet, il trentatreenne triestino sopravvissuto al gelo per tutto quel tempo sui monti della Val Venzonassa, in Friuli, sulle Prealpi Giulie. Lui e il suo cagnolino Ash, un piccolo meticcio di undici anni. La notizia sta facendo il giro delle testate di tutto il mondo.

Eccolo qui, Michele. Eccolo qui a raccontare da un letto dell’ospedale di Cattinara, dove è stato trasferito venerdì sera dopo il primo ricovero a Udine, ciò che ha vissuto in quella settimana all’addiaccio. «Freddo, sete... non potete avere idea».

Michele era ferito, immobilizzato per i traumi subìti cadendo in un dirupo di neve, fango e pietre: il canalone in cui è precipitato il primo giorno di escursione, giovedì 11 febbraio, mentre camminava in un sentiero a 800 metri di quota. Il piede destro fratturato. Le costole rotte. Respirava a fatica. Sangue dappertutto.

«Stavo per svenire dal dolore, ma ero consapevole che se mi fossi addormentato sarei morto congelato», ricorda il trentatreenne. Si è trascinato con i gomiti e le ginocchia per raggiungere la strada forestale sottostante, sperando che qualcuno prima o poi passasse. Ma niente. Non è passato nessuno. Per sette giorni e sette notti Michele non ha mangiato nulla. Ma proprio nulla. Metteva in bocca pezzetti di ghiaccio, triturando con un sasso una piccola pozza gelata che si era formata in mezzo alle pietre con gli zampilli di un torrente poco distante, che però l’escursionista non è riuscito mai a raggiungere. «Sono sopravvissuto così...», dice.

Benedet, che di mestiere fa il montatore di palchi per conto di una ditta, è pratico di montagna. La ama visceralmente. Sa muoversi. In passato era socio del Cai. Ma mai avrebbe pensato di restare intrappolato al freddo.



In quella settimana di agonia ha avuto allucinazioni, quelle della sete che ti divora corpo e anima. E ti azzera il cervello. «Parlavo da solo». Il giovane si è coperto con le foglie e la cartina topografica. «Avevo freddo, tanto tanto freddo». Il cagnolino Ash è stato sempre con lui. «Un giorno gli ho urlato contro per scacciarlo via... Volevo farlo correre verso il paese dove magari avrebbe attirato l’attenzione di qualcuno». Invece no. Ash ritornava. Dai morsi della fame, il cagnetto si è messo a masticare sassi. Si alzava ogni tanto per andare a dissetarsi nel ruscello.

Michele invece non ce l’ha fatta ad arrivare al torrente. Le fratture e la debolezza gli impedivano ogni movimento. «Imploravo il cane di portarmi un po’ di acqua... Speravo che mi vomitasse addosso per mangiare il suo vomito». L’ultima notte, tra mercoledì 17 e giovedì 18, il cagnolino, anche lui stremato, ha dormito accoccolato stretto al suo padrone. Quel calore, quell’ultimo calore, ha salvato l’escursionista da una morte per assideramento, che probabilmente sarebbe sopraggiunta prima di una fine per fame e sete.

Giovedì mattina, quando il giovane ha sentito un elicottero sopra di lui, ha alzato un braccio. Era ancora vivo. I soccorritori si sono avvicinati a quel corpo ricoperto di foglie consapevoli di trovarsi dinnanzi a qualcosa di incredibile. Di sovrumano. Michele era ai minimi termini. Sarebbe morto nel giro di qualche ora. Oltre alle fratture, i medici gli hanno diagnosticato un principio di congelamento. Ora il trentatreenne sta un po’ meglio e ha la forza di parlare. E pure di scherzare.



Michele, come sta?

Madonna mia... con tutti i farmaci che mi danno mi sento un po’ confuso. Mi bombardano come non ci fosse un domani.

Lei è sopravvissuto una settimana al gelo, ferito, senza mangiare e senza bere. Come ha fatto?

La cosa che ho sofferto di più è stata la sete. È terribile.

Si ricorda come è caduto?

Stavo camminando giù per un sentiero. Un sentiero normalissimo, come quando cammini in Val Rosandra. E niente... sono semplicemente scivolato e sono caduto in una specie di dirupo. Solo che era pieno di neve e quindi ho continuato a scivolare, non riuscivo a fermarmi.

Per quanti metri?

Credo una trentina. Mentre cadevo ho provato ad aggrapparmi ai rami e ai sassi. Ho l’immagine di me a testa in giù che sto precipitando sulle pietre sotto. Ma mi sono trovato seduto sulle pietre, anziché spiaccicato. Sentivo male dappertutto, come se avessi una barra di ferro che mi attraversava il corpo. Non avevo aria, non riuscivo a respirare. Grondavo sangue.

A quel punto cosa ha fatto?

Ho dovuto ragionare, fare delle scelte. Capire come muovermi e dove andare. Respiravo a fatica, non avevo ossigeno... ma la prima cosa che ho fatto è stata controllare gambe, braccia e polsi. Sembrava tutto a posto. Ma quando mi sono alzato mi son detto... mmm... qui c’è qualcosa che non va al piede destro. E mi è venuto di svenire. In passato mi è già capitato di svenire: è successo dopo un incidente in motorino. Quindi sapevo cosa significa: crolli da un momento all’altro. A un certo punto ho avuto la tentazione di chiudere gli occhi e di addormentarmi, ma ero consapevole che se avessi fatto così sarebbe stata la fine. Sarei morto congelato. Allora ho preso su lo zaino e l’ho fatto rotolare giù, seguendolo pian piano, scivolando e strisciando. Poi ho ragionato: ho deciso di provare a raggiungere il sentiero sotto, cioè la strada forestale che è più larga. Ho pensato che se fossi riuscito a arrivare lì, prima o poi qualcuno mi avrebbe trovato e salvato. Quindi ho lasciato lo zaino.

Perché ha abbandonato lo zaino? Dentro aveva sicuramente qualcosa da mangiare e da bere.

Sì, ma nelle condizioni in cui ero con lo zaino non riuscivo più ad andare avanti. Troppo peso. Quindi ho tirato fuori il telo termico, la carta topografica e la torcia. Ho bevuto l’ultimo sorso di limonata dalla borraccia e ho continuato a trascinarmi. Quella limonata l’ho pensata per tutti i sette giorni successivi. Ancora adesso sto chiedendo a tutti limonata.

Nello zaino aveva da mangiare?

Sì da mangiare ne avevo eccome... di tutto: scatolette, panini e altre cose.

Perché non ha preso anche il cibo dallo zaino?

Perché stavo svenendo. Ho mollato tutto per andare di sotto a svenire sul sentiero in modo che qualcuno mi trovasse il prima possibile. Non volevo crollare nel punto in cui ero, cioè in mezzo al dirupo. E non immaginavo che invece sarei rimasto una settimana intera così, ad aspettare da solo al freddo.

Si è riparato dal freddo con le foglie e la cartina topografica?

Sì, la cartina è stata più utile del telo termico, che a un certo punto ho perso. Negli ultimi giorni mi sono riparato con la cartina. Ho fatto uno strato di foglie, ho messo la carta sopra e poi sopra un altro strato di foglie.

E non aveva nemmeno da bere.

No, niente. Avevo bevuto il primo giorno quell’ultimo sorso di limonata. Ma trascinandomi verso il torrente ho trovato un punto in cui rompere un po’ di ghiaccio e mettevo in bocca quello. L’ultima notte prendevo di continuo pezzetti di ghiaccio perché non ne potevo più, ero fuori di testa dalla sete. Ho sofferto non tanto la fame, quanto la sete. Ma una volta ho avuto la tentazione di addentare una pigna. Mi ha fatto gola.

Il cellulare lo aveva?

Anche quello ho preso dallo zaino, ma non c’era mai rete. A ogni micro spostamento che facevo provavo ad accenderlo per vedere se avevo campo... ma niente. Tentavo di telefonare e ho mandato messaggi Whatsapp chiedendo aiuto, sperando che magari prima o poi si collegasse. Per non consumare la batteria spegnevo di volta in volta il telefono.

È sempre stato fermo?

I primi giorni sì. Poi ho tentato di spostarmi un po’ verso il torrente, sentivo il rumore dell’acqua. Strisciavo per terra. Per farlo avevo incastrato i guanti sotto le ginocchia.

Non è però riuscito a raggiungere quel ruscello per dissetarsi.

Non ne avevo la forza. Ma ce l’ho fatta ad avvicinarmi a delle piccole pozze di ghiaccio, create dagli zampilli del torrente. Ho rotto dei pezzettini e li mettevo in bocca per dissetarmi. Poi non avevo più idee, non sapevo più cosa fare. Parlavo solo, parlavo con gli spiriti. La fame e la sete mi facevano venire le allucinazioni: una volta ho visto una tribù africana, poi ho visto i giapponesi. Facevo discorsoni. A un certo punto pensavo di essere a casa e che qualcuno, per farmi uno scherzo, mi avesse messo in giardino.

E il cane?

Ho sentito che il cane è diventato un eroe (ride). Io ho un rapporto molto stretto con Ash. Io parlo con lui.

Dopo che è scivolato nel dirupo Ash l’ha trovata subito?

Sì, anche perché sono caduto per una trentina di metri. Ash scodinzolava, pensava che giocassi. Perché mi vede spesso quando mi lancio giù per i ghiaioni in montagna... quindi lui mi guardava e scodinzolava. Gli ho detto di stare fermo e buono, sennò per venirmi incontro rischiava di darmi il colpo di grazia facendomi cadere ancora di più. Io dicevo ad Ash “cossa te scodinzioli... vara che qua xe longhi... qua xe veramente longhi sto giro”.

Il cane le ha tenuto caldo?

Gli chiedevo di starmi vicino perché avevo un freddo pazzesco, ma lui mi guardava. Non capiva. Andava a bere nel torrente e io gli imploravo di portarmi acqua... lo supplicavo di vomitarmi addosso per mangiare il vomito. Una notte ho sentito una presenza accanto a me... ho urlato per paura... ma era lui, Ash. Un giorno invece, preso dalla disperazione, ho provato anche a scacciarlo via per farlo correre verso il paese nella speranza di attirare l’attenzione di qualcuno. Anche perché se fossi morto, lui cosa avrebbe fatto? Sarebbe stato lì a guardarmi. Ma lui tornava. Perché io e lui siamo sempre insieme. Quando vado in grotta mi aspetta fuori. Mi aspetta sulle creste dei monti. È così Ash. E l’ultima notte ha dormito accoccolato a me. —

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