Sconfigge il Covid dopo due mesi, la farmacista di Socchieve torna a casa: «Ho combattuto con tutte le mie forze»

SOCCHIEVE. È tornata a casa a due mesi dal giorno in cui il virus è esploso con una forza dirompente facendola precipitare in un limbo nel quale la sua mente fluttuava, mentre il corpo combatteva la sua più dura battaglia.
Giuditta Danelon, 65 anni, farmacista di Socchieve, martedì ha varcato l’uscio della sua abitazione, da dove il personale del 118 l’aveva fatta uscire su una barella il 19 marzo. Ha sconfitto il Covid-19, non senza l’aiuto di tante persone che lei non smette di ringraziare. A circondarla di affetto, oltre ai familiari, una comunità che non ha mai smesso di fare il tifo per lei.
«Di quel giorno ricordo solamente la tosse stizzosa e l’infinita stanchezza che mi impediva anche solo di rispondere al telefono» racconta la dottoressa Danelon, mentre tenta di ricostruire i contorni di due mesi avvolti dalla nebbia. «Ho in mente la musica di sottofondo delle apparecchiature in Terapia intensiva, a tratti insopportabile, e le sagome degli infermieri, dei medici, tutti uguali nelle loro tute, tutti irriconoscibili fino a quando non ho potuto a leggere i loro nomi dalle targhette».
Il suo racconto fluisce a sprazzi, interrotto dai colpi di tosse: «Sono guarita, i miei test sono negativi, come quelli di mio marito e di mia figlia, ma i problemi respiratori e muscolari richiederanno tempo e pazienza per andarsene. In ospedale mi hanno detto che ho lottato con tutte le mie forze. Vagheggiavo, la mia mente inseguiva pensieri distanti, ma la sensazione più difficile da superare era quella di non avere più il controllo di un corpo ormai rigido, che non potevo governare. Dalla Terapia intensiva sono passata alla semintensiva e poi alle Malattie infettive – mette in fila le settimane –, la prima volta che mi hanno permesso di parlare al telefono con mia figlia, un’infermiera mi ha sorretto il cellulare perché lo sentivo pesantissimo e non riuscivo e reggerlo fra le mani, poi mi hanno insegnato come alzarmi, camminare e fare le piccole cose».
Un percorso di rinascita che Giuditta Danelon ha compiuto lentamente, dopo aver trascorso settimane intubata e sottoposta a cicli di Niv, Cpap con casco alternati ad Airvo per l’ossigenoterapia, dettaglia Danelon snocciolando sigle che per la gente comune non hanno senso, ma che rappresentano la salvezza per chi ha attraversato l’inferno del coronavirus.
«É una malattia molto aggressiva, ha scatenato un terremoto – ammette – che ha travolto mio marito quando, cercando mie notizie al telefono, ha appreso che non potevo rispondere perché ero gravissima».
Il 4 maggio, dopo aver superato la fase critica e perso una decina di chili, Danelon è stata dimessa dall’ospedale, ma era ancora troppo presto per tornare a casa, quindi è rimasta a Udine per una decina di giorni a riprendere le forze in un alloggio nei pressi dell’ospedale. «Ho pensato tante volte a come sono stata contagiata – confessa –, all’epoca adottavamo tutte le misure di sicurezza con mascherine, il lavaggio accurato delle mani, il distanziamento sociale, anche se non avevamo ancora montato le barriere di plexiglas, ma un metro di distanza può essere insufficiente, un momento di disattenzione, per raccogliere una ciocca di capelli, sfiorare un occhio, possono essere fatali, non bisogna mai abbassare la soglia di attenzione» commenta.
Il pensiero corre agli assembramenti di questi ultimi giorni, alla ressa fuori dai bar festeggiando un pericolo falsamente ritenuto lontano. «Finché non si provano gli effetti del virus non si capisce quanto è aggressivo – assicura – mi dicono che sono stata fortunata, mi auguro che la gente non sottovaluti i rischi».
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