Si chiude una storia cominciata 140 anni fa con il terzo reggimento

Alla fine la mannaia è calata. Non sono serviti appelli, viaggi a Roma, solito rituale di situazioni simili, quando una città deve ingoiare un boccone amaro, ingiusto

TOLMEZZO. Alla fine la mannaia è calata. Non sono serviti appelli, viaggi a Roma, solito rituale di situazioni simili, quando una città deve ingoiare un boccone amaro, ingiusto. Tolmezzo e la Carnia ci hanno fatto (purtroppo) l’abitudine.

Adesso se ne vanno gli alpini, si chiude una storia che con il glorioso terzo reggimento era cominciata 140 anni fa. Non si tratta di vicende retoriche e di sapore solo militaresco. No, perché è tutta un’umanità a essere cresciuta attorno a un modo di essere e a una visione della vita particolare.

Quando tornarono dalla campagna di Libia nel 1912 gli uomini del mitico generale Cantore portarono con sé un bambino di colore, trovato piangente sul campo di battaglia il giorno di Pasqua. E per questo fu chiamato Pasqualino Tolmezzo, venendo adottato dagli alpini e da tutto il Friuli.

Era uno dei personaggi più famosi nella Udine degli anni Trenta. A dire queste cose, sembra di evocare il nulla nostalgico. Non è così, altrimenti non si capirebbe il legame sincero tra le penne nere e la nostra terra, nessuna componente esclusa.

Il fatto che adesso Tolmezzo, porta di ingresso alla montagna carnica, rimanga senza di loro, non lascia indifferenti. È un problema sociale, simbolico, ma anche economico perché 250 uomini devono spostarsi nelle caserme di Venzone e Remanzacco.

Per quanto resisteranno al pendolarismo? Quando porteranno con sé le famiglie? E sarà un altro duro colpo per il capoluogo carnico, punto dove si concentrano i tanti guai di questo vulnerabile e bellissimo territorio. La Carnia non sta scontando una sfortuna solo sua perché è inserita in un mondo in forte difficoltà dovunque.

Lassù ci si interroga ormai da decenni su come uscire dal tunnel trovando vocazioni e attività nuove, ma attorno la vicenda generale si è intanto complicata maledettamente, a partire dal 2007 quando è divampata la crisi che ha lasciato in braghe di tela tutti, in particolare una regione di confine come il Friuli Venezia Giulia. Mosaico al cui interno ognuno cerca una soluzione ad hoc per i suoi problemi.

Basta pensare a Udine, città dall’anima commerciale e ora stretta nella morsa degli ipermercati, per cui deve inventarsi un nuovo appeal, forse tra turismo e cultura, per resistere. Nel frattempo si aggrappa all’università che tiene botta con le immatricolazioni in crescita.

Senza università, Udine vivrebbe un tramonto profondo. Il caso più difficile in regione riguarda comunque Monfalcone, dove non è avvenuta la temuta delocalizzazione del cantiere navale, ma dove questo stabilimento ha cambiato pelle finendo per delocalizzare in senso sociale la stessa città. Problemi di cui si colgono poi i segnali quando la gente va a votare.

In questo contesto si colloca la Carnia, che al di là delle parole d’effetto (incubo, emergenza...) ha l’esigenza di trovare quanto prima un progetto su cui compattarsi e credere, un’idea, un cammino da percorrere insieme. In tale compito è chiamata in causa la politica, che deve uscire dalle modalità di rito. Politica con la necessità di bonificarsi, risanarsi, mentalmente ed eticamente.

In questo, il ricordo del post-terremoto può forse servire. Scattò allora una sorta di patto tra i partiti e ciò non significava che bisognava andare d’accordo, comunque e sempre. Tra avversari, più che sulle offese, la discussione verteva nel convincere gli altri sulla bontà della propria proposta. Sembrano favolette, cose lunari, eppure andò così, almeno per un decennio.

Poi tutto cambiò. Cosa fare allora in Carnia, colpita al cuore dalla partenza degli alpini? Le idee forse ci sono, importante è applicarle senza arroganza, ma con spirito giusto, quasi ecumenico. Chi agisce in politica al giorno d’oggi, facendosi suo malgrado carico di quanto è successo finora, deve mostrarsi efficace, geniale, abile, esperto, quasi francescano nelle aspirazioni.

Anche la storia degli alberghi diffusi è finita di recente in un ingorgo. Invece, partendo dalle intuizioni di Leonardo Zanier e Pietro Gremese, può rappresentare un modello utile. Se i fondi europei hanno fatto affluire in una quindicina d’anni contributi per 25 milioni di euro, i privati (dato questo trascurato nelle varie analisi) hanno investito nella vicenda più di tre volte tanto, per rimettere a posto vecchie case sparse in località come Sauris, Maranzanis, Raveo, Clavais eccetera.

Lo hanno fatto spesso con la passione degli autentici visionari. Inventare nuove forme di turismo, in zone senza tradizione, resta una scommessa da non minimizzare. Salutati gli alpini, ricomincia dunque il balletto sul “che fare” e in Carnia, quanto ad autoanalisi, non si scherza.

Ma la realtà rimane impervia, come uno Zoncolan da scalare in bici sul versante di Liariis! In uno dei suoi ultimi studi, l’architetto Luciano Di Sopra analizzò la composizione del territorio svelando dati inquietanti. In mezzo secolo, la percentuale che somma terreni sterili, incolti e boschi è arrivata al 96%. Per il resto solamente 2,4% di prati coltivati e 0,3 di seminativi. Il quadro è chiaro. La natura prende inesorabilmente piede, non trova ostacoli nei paesi disabitati. Presto ingoia tutto. Si deve agire in fretta e i 250 militari con la valigia in mano rendono tutto più urgente.

. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Argomenti:montagna

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto