Si riconoscono in una foto a quarant'anni dal terremoto, erano nel punto ristoro di Gemona
GEMONA. Tra le case che il terremoto del 1976 si portò via c'erano anche quelle delle famiglie Forgiarini. Tutte nella zona Stalis di Gemona. I primi giorni, senza tenda, furono i più duri. Si dormiva poco, si mangiava quel che c'era.
Nella strada di fianco, in via Scugjelars, fu allestito un punto ristoro con una cucina da campo: proprio lì il fotografo del Messaggero Veneto scattò la fotografia che ci ha permesso, oggi, di ritrovare alcuni di loro.
Liano. La sera del 6 maggio 1976, quando la terra tremò forte per la prima volta, Leda Cettul e suo marito Liano Forgiarini erano per strada, sotto casa. Leda strinse forte sua figlia Silvia, cinque mesi. Liano la mano della più grande, Erica, due anni.
«Alla prima scossa mi sono ritrovata con le gambe divaricate: mi sembrava si aprisse il terreno sotto di me - racconta Leda - la cosa più sconvolgente, però, è stato il silenzio dopo la scossa: non si sentiva nessun rumore. Niente. Neanche gli scricchiolii delle case. Era già crollato tutto. E poi quel cielo rosso dietro alle montagne - continua - mi faceva tanta paura».
In quella zona alcune case crollarono, altre subirono danni e furono riparate, altre ancora inagibili e poi ricostruite. Ci furono vittime e feriti. Il prato davanti si trasformò in una tendopoli per tutti i parenti: da maggio a settembre Leda e la sua famiglia vissero in tenda, poi si trasferirono a Lignano finché, a marzo 1977, non andarono nella Krivaja, uno dei tanti tipi di prefabbricati allestiti a Gemona. Sempre vicino a casa. Sempre tutti insieme.
«Quella notte, intorno alle 4, io e i miei fratelli siamo scesi verso il centro - racconta Liano - albeggiava, così abbiamo visto quello che non avremmo mai voluto vedere: Gemona distrutta. Macerie e polvere ovunque. Il fumo bianco dei calcinacci. Molte persone erano sedute in piazza, avvolte nelle coperte, nelle lenzuola, in qualsiasi cosa poteva proteggerle. Mi preoccupavo per la mia officina - continua - avevo paura non ci fosse più niente».
Ezio. Nelle ore successive alla scossa ogni famiglia contava i presenti. All'appello della famiglia Forgiarini mancava Ezio, il nipote di Liano. Tutti temettero il peggio. Quella sera era andato al Lago di Cavazzo con la futura moglie, così ci mise un po' per tornare a Gemona perché le strade erano bloccate. Le montagne franate.
Quando Ezio arrivò in paese era piena notte. Il buio non permetteva di vedere niente ma non appena la sua voce risuonò tutte le angosce di quelle ore svanirono. «Siamo subito ripartiti per Bordano - racconta - mia moglie era di lì, pensavamo ai suoi genitori, non avevamo modo di contattarli. Sua madre l'abbiamo incrociata, disperata, per strada: era venuta giù a piedi per cercarla».
In quel periodo Ezio lavorava con suo zio Liano, in via Roma, dove oltre all'officina c'era un rifornitore di benzina. Né gli erogatori né l'edificio subirono danni e così, nonostante mancasse la corrente elettrica, in pochi giorni ripresero l'attività.
La vita tutto sommato sembrava stesse tornando a scorrere. Anche Ezio passò l'estate in tenda, poi con suo fratello Maurizio costruì una baracca di legno vicino a casa e per un periodo stettero lì.
Dal prato di via Scugjelars il castello di Gemona, oggi, si vede benissimo. Prima che il terremoto lo frantumasse violentemente, per la famiglia Forgiarini era la propria bussola personale, la torre la parete di casa su cui guardare l'ora. «Un signore quella notte ci disse che era venuto giù il castello - raccontano - al mattino fu la prima cosa che guardammo: sembrava un dente spezzato».
Maurizio. Quando Stefania arrivò come volontaria a Gemona, nel 1979, non avrebbe mai immaginato che da lì non sarebbe più andata via, né che avrebbe incontrato l'amore.
Partì da Torino, con un gruppo di ragazzi che, come lei, voleva dare una mano a ricostruire il Friuli. Le macerie quell'anno già non c'erano più e il paese ricominciava, lentamente, a riprendere forma.
Maurizio lo conobbe un anno dopo, quando aveva già deciso di fermarsi. Si incontrarono nella borgata Stalis, vicino a casa di lui, dove lei andava ogni giorno per aiutare una coppia di anziani ad andare avanti, a elaborare il lutto inconsolabile di una figlia morta sotto le macerie.
Quella sera del 6 maggio Maurizio Forgiarini era a casa con la madre e i fratelli. Si preparava per uscire con la ragazza del tempo e il suo essere un po' ritardatario lo salvò.
«Se fossi andato in piazza in orario probabilmente sarei morto - racconta - dopo la scossa sono scappato giù per le scale, ho fatto due salti, superato venti scalini credo, e mi sono catapultato in cortile. Per fortuna la porta di casa era aperta, mia madre e i miei fratelli erano già fuori - continua - altrimenti avrei sbattuto la testa perché non sarei riuscito a frenare».
Mezz'ora dopo Maurizio uscì di casa e aiutò un uomo a liberarsi dalle macerie. Non vide niente: sentì urlare e cercò di sentire le mani per aiutare i soccorritori a estrarlo.
Per le strade di Gemona la gente si riversava in piazza Garibaldi, l'unico spazio rimasto libero. I soccorsi non erano ancora arrivati e si vedevano soltanto i militari del posto.
«Dall'Hotel Nazionale lanciavano coperte - continua Maurizio - e il giorno successivo si contavano i morti. Si contava quello che mancava. Con mio fratello ho estratto i corpi di due cugini di mio padre - aggiunge - sono rimasti schiacciati dalla loro casa».
Nel ricordare quei momenti Stefania e Maurizio ritornano spesso sui soccorsi tempestivi e sulla solidarietà dei volontari. Raccontano dei legami stretti nelle baraccopoli, dei volontari fuori sede che negli anni sono ritornati a Gemona per incontrare i friulani. Dell' aiuto ricevuto dagli altri.
Forse per questo quattro anni dopo, nel 1980, partirono per l'Irpinia dove un altro terribile terremoto uccise 3000 persone.
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto