Strage di Natale/ La storia Quella bomba dei misteri che ferì Udine FOTO 1 - FOTO 2 - FOTO 3
La Corte d’Assise d’appello di Trieste ha dunque messo un punto fermo, almeno sul fronte giudiziario, sulla cosiddetta “strage di Natale”, l’attentato in cui, alle 5 del mattino del 23 dicembre 1998, persero la vita tre poliziotti della Questura udinese, Adriano Ruttar, Paolo Cragnolino e Giuseppe Guido Zanier. Sono passati quasi 15 anni da allora, ma i colpevoli di quel misfatto non sono stati individuati. L’articolo che segue offre uno spaccato di com’era la Udine by night ai tempi in cui avvenne la strage, delle indagini che ne seguirono, delle prime inchieste, dell’enorme impressione che il fatto suscitò in città.
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«E’ esplosa una bomba in viale Ungheria. Sono morti dei poliziotti, anche Guido».
Una telefonata prima dell’alba non è mai un buon segno. Non lo era neanche in quella gelida mattina del 23 dicembre 1998. Le sirene avevano già smesso di solcare le strade fino all’ospedale, il corpo di Ruttar era ancora senza il lenzuolo, sotto i portici. Ricordava troppo l’Hannibal Lecter che evade dopo aver scuoiato due agenti. Un silenzio surreale. Un freddo pungente e tutti zitti a guardare. «Sono morti tre miei colleghi, che vuoi che ti dica?», sbottava un amico.
Non c’era la curiosità nei volti della gente, come accade davanti a un qualsiasi altro fatto di cronaca nera. C’era già lo sdegno di una città ferita al cuore. Il fuoco, la bomba, i morti: che morti!
«Ci hanno rovinato il Natale, quei maledetti», scriveva il direttore Gervasutti nel suo fondino dell’edizione straordinaria del “Messaggero Veneto” cui nessuno si sottraeva quella mattina al giornale.
Due giorni d’inferno il 23 e il 24, quando nel pomeriggio il presidente del consiglio D’Alema e il ministro degli Interni Iervolino arrivavano sulle loro auto blu per i funerali in duomo. Silenzi e lacrime, come quelle di Giovanni Belmonte che in cella mortuaria non staccava gli occhi di dosso dai suoi tre ragazzi delle Volanti chiusi nelle bare, lui che per anni li aveva comandati in questura. Ma bisognava agire subito, presto. Perché, si sa, gli omicidi si risolvono nelle prime ore, nelle prime giornate.
Al di là dei giudizi, delle inchieste e delle sentenze (che vanno rispettate) la sensazione che subito si respirava era quella di una certa fretta a dover rivoltare come un calzino una città in preda alle bande legate al mondo della prostituzione. Un ambiente sotto gli occhi di tutti, anche dei bimbi che ormai non si potevano nemmeno più portare a mangiare una fetta d’anguria in viale Trieste, a patto di dover spiegare loro chi fossero quelle donne (e uomini, i primi trans) che agghindate in modo inequivocabile sostavano sui marciapiedi.
I viali ne erano pieni: anche 120 ragazze d’ogni “colore”, la sera e la notte. Le africane in una zona, le albanesi in un’altra, le russe in un’altra ancora: si erano spartite la città. Alcune ci hanno anche lasciato le penne: altri omicidi irrisolti in Friuli...
Ma soltanto dopo che la polizia aveva perso tre suoi valorosi uomini il ministero decideva di spedire qui un nuovo questore (poi molto amato) che nel giro di poche settimane azzerava quello che sembrava essere uno scempio in strada. Poi trasferito negli appartamenti, si dirà, ma non più così sfrontato e (forse) organizzato.
È normale che con tre poliziotti morti tutti abbiano fretta di arrivare a un risultato: forse è stato questo “l’errore” (non voluto) compiuto da investigatori che per settimane sono andati avanti anche senza dormire, intercettando “il mondo” alla ricerca di una traccia, di un frammento utile, perquisendo dappertutto. Il mondo della prostituzione al setaccio perché lì portavano le indagini, alla ricerca di una verità che forse andava trovata altrove, anche con un po’ di fortuna che non c’è mai stata, almeno a vedere i risultati processuali. Né strage né triplice omicidio né associazione mafiosa, dicono le sentenze.
La prima inchiesta naufragava appunto (forse) per la troppa fretta. Da Udine emigrava quindi a Trieste competente come Antimafia. Una nuova cornice per inquadrare i medesimi fatti, partendo da un altro punto di vista che vedeva finire nei guai anche carabinieri e poliziotti presunti amici delle stesse prostitute. Un teorema che reggeva piuttosto bene nella fase cautelare delle indagini e poi crollava al processo. Restava il substrato, quell’ambiente che Udine ha sempre sopportato magari cambiando gli itinerari delle passeggiate serali estive. Perché come tutte le città, anche l’isola felice udinese ha sempre avuto il suo “giro”, anche quando tra gli anni 70-80 e inizio dei 90 le prostitute venivano massacrate da un mostro che inizialmente si diceva non esistere e che poi s’è cercato (e forse trovato) quando ormai era troppo tardi. Anche qui. Un chirurgo, per giunta!
Ma era un’altra cosa, quasi un malcostume sopportabile per decenza maschilista dopo che la legge Merlin aveva da poco bandito ciò che nella vicina Austria è ancora un lavoro statale e regolato. Così Udine si lasciava alle spalle una mega-inchiesta e un maxi-processo che in aula non vedeva mai presente un pubblico degno della circostanza. Quasi una palestra per avvocati affermatisi anche dopo e che adesso raccolgono questo “successo” difensivo che però lascia un vuoto enorme in quella verità che nessuno è ancora riuscito a spiegare a noi udinesi, ai figli, alle mogli, alle fidanzate e ai genitori di tre agenti arrivati con troppo anticipo (un terribile vanto) su quella bomba che sarebbe potuta scoppiare in mano o in faccia ai vigili del fuoco, che in quell’alba gelida si trovavano a duecento metri perché stavano accorrendo a sirene spiegate pure loro.
E adesso? Il tempo è passato, la memoria stempera i ricordi, i giovani sotto i 15 anni non erano nemmeno nati. Però c’è ancora qualcuno che ci crede: per principio, perché magari sa di essere andato molto vicino a una verità rimasta magari nelle carte o nella memoria di qualcuno che ahilui potrebbe aver lasciato Udine e quel mondo cancellato in quattro e quattr’otto da un questore (il dottor De Donno) ricordato anche per aver risolto un problema e ridato alla città un minimo di decenza.
Ci sarebbe bisogno di un’altra inchiesta, ma chi ha il coraggio di rituffarsi in un mondo che non c’è più? Sarebbe doveroso. Complicato ma doveroso. Nelle caserme dei carabinieri e negli uffici della polizia c’è ancora qualcuno che sa, che ricorda, che potrebbe riprendere tutto da zero. Certo ci vorrebbe anche un colpo di fortuna. Un tentativo andrebbe fatto se non altro per Guido, Paolo e Adriano che quella mattina stavano per finire il turno quando sono corsi in viale Ungheria senza pensare che sarebbe stata l’ultima loro missione. Perché “quei maledetti” ci avranno anche rovinato il Natale ’98, ma hanno distrutto famiglie intere che più di tutte hanno atteso invano verità e qualche colpevole.
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