Strage di Natale, non fu la mafia a colpire
UDINE. «Poche frasi, quasi battute», in un’esposizione dei fatti realizzata «con modalità estremamente succinte e tali da risultare in alcuni punti addirittura incomprensibili» e con un argomentare «contraddittorio» rispetto all’ipotesi di reato dell’associazione di tipo mafioso. Sono alcuni dei passaggi con i quali la Cassazione ha motivato la decisione dello scorso 18 ottobre di annullare la sentenza di condanna a due ergastoli emessa, quattro anni prima, dalla Corte d’assise d’appello di Trieste, al termine del processo sulla strage di Natale.
Un verdetto clamoroso, quello pronunciato dagli ermellini romani a quasi 14 anni di distanza dalla tragica notte del 23 dicembre 1998, in cui, in viale Ungheria, una bomba uccise tre agenti della Squadra volante della Questura di Udine. Un verdetto capace di azzerare sentenze e imputazioni e di fare ripartire così il processo, davanti ad altra sezione della stessa Corte d’appello, dal punto in cui era stato impugnato, dopo che i giudici udinesi di primo grado avevano concluso per l’assoluzione piena di tutti gli imputati.
Motivazione carente. «Elusione dell’obbligo di motivazione»: ecco, in diritto, la ragione per la quale la Suprema Corte ha deciso di “bocciare” l’operato dei giudici triestini. A loro volta tenuti, così come tutti i magistrati d’appello che riformino totalmente la sentenza di primo grado, «a dimostrarne con rigorosa analisi critica l’incompletezza o l’incoerenza».
Così, per la Cassazione chiamata a valutare le conclusioni sul delitto degli agenti Giuseppe Guido Zanier, Paolo Cragnolino e Adriano Ruttar, non è stato. «Il giudice di appello - si legge nelle motivazioni - si è limitato a enucleare dalle risultanze processuali descritte dal giudice di primo grado e non autonomamente ricostruite quelle che apparivano funzionali al successivo discorso critico contrastante con quello della sentenza appellata».
Sentenza che era stata impugnata dagli avvocati friulani Laura Luzzatto Guerrini, difensore di Ilir Mihasi, e Alberto Tedeschi, difensore di Saimir Sadria - i due albanesi, entrambi latitanti, condannati all’ergastolo - e dall’avvocato Maurizio Miculan, difensore di Nicola Fascicolo, che, insieme all’ucraina Tatiana Andreicik (avvocato Luzzatto Guerrini), era uscito dall’appello con una riduzione di pena (tre anni in meno a lui e sei mesi a lei) per il solo reato di associazione mafiosa.
Nessuna intimidazione esterna. A fare acqua e pesare sul pronunciamento della Cassazione, presieduta da Matilde Cammino e composta, tra gli altri, da Piercamillo Davigo, è stata soprattutto la tesi dell’associazione di stampo mafioso.
«La Corte d’appello - hanno scritto i giudici - si è limitata a parlare di un controllo interno, anche violento e pressante, sull’attività delle ragazze avviate alla prostituzione, intimidite per le sorti proprie e dei loro parenti. Di una forza esercitata, quindi, all’interno della cerchia della prostituzione, piuttosto che dell’esistenza in concreto di una capacità di sopraffazione esterna, rivolta con carattere diffuso verso terzi in un ambito territoriale di cui si voleva ottenere il controllo».
Bersaglio sbagliato. Non meno significativo, secondo gli ermellini, anche il fatto che i giudici triestini abbiano «escluso che il movente dell’attentato fosse quello indicato dall’accusa di colpire singoli poliziotti a causa di comportamenti tenuti verso il gruppo o comunque di intimidire la polizia per ritorsione ai continui controlli che venivano effettuati verso le prostitute, rilevando - si legge ancora - che il gruppo albanese era brutale, ma certamente nè sprovveduto, nè poco lungimirante nella gestione della propria attività criminosa». Da qui, la conclusione secondo la quale «non era sicuramente interesse degli imputati creare un clima di prevaricazione verso l’esterno, che poteva incidere solo negativamente sugli affari del gruppo che allora godeva di notevoli introiti».
La mafia è un’altra cosa. Ecco perchè, per gli ermellini, le argomentazioni dei colleghi triestini si sono rivelate «contraddittorie» rispetto alla ritenuta sussistenza del reato di associazione di tipo mafioso, «che - si legge in motivazione - non può prescindere dall’intimidazione esterna, poichè elemento caratteristico dell’associazione in questione è il riverbero e il radicamento nel territorio in cui vive. L’intimidazione e l’omertà vanno riferiti non a soggetti interni al gruppo, essendo presenti in ogni consorteria, ma a soggetti terzi in stato di soggezione di fronte alla forza dei “prevaricanti”».
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