Tante nostre eccellenze, ma pochi “marchi” del Friuli

UDINE. Friuli Doc “sa” di frittelle di mele. Riconosco l’odore risalendo da via Grazzano, dove la nuova pista ciclabile sembra voler partecipare all’evento, e sento quel profumo misto di pasta cotta e cannella aleggiare nel centro cittadino. Tutto diverso da quello che caratterizza Santa Caterina dove spadroneggia invece l’aroma dello zucchero filato e delle mandorle tostate.
Ma, tanto per divagare sul tema, pur restando nell’agroalimentare, i più anziani ricorderanno quello che fino a qualche decennio fa, si poteva considerare l’odore caratteristico di Udine in determinate ore quando, dalle ciminiere della Moretti di viale Venezia e dalla Dormisch di viale Ledra, arrivavano gli effluvi amari e speziati del luppolo, usato per fare la birra. Oggi restano i marchi prestigiosi, le pubblicità “ringiovanite” nei volti del Baffone di turno, ma non più la produzione.
Proprio da Friuli Doc arriva però un segnale di speranza, seppur artigianale, con la presenza di nuove piccole aziende del settore. Mi ha colpito il nome di una di queste realtà: Sante Sabide. Un riferimento preciso a quel Friuli contadino, studiato e spiegato da don Gilberto Pressacco, in cui le tradizioni giudaiche si mescolavano ai riti dei primi cristiani. Se voluto come marchio a indicare questo legame con la storia, tanto di cappello ai suoi inventori, se, al contrario, è un inno alle bevute del sabato sera, allora l’invito è a cambiarlo in fretta.
Già perché oggi nella terza giornata dell’evento, proprio di questo si tratta. Dopo il primo giorno che storicamente vede protagonisti i buongustai, quelli che “prima una rapida visita generale agli stand per annotarsi qualche eventuale novità nei menù, poi la scelta”; dopo il venerdì, considerata la serata delle famiglie, udinesi in testa, oggi è il momento più delicato perché arrivano proprio tutti, turisti da week end compresi.
Purtroppo, ormai da qualche anno, sembra che la nottata sia divenuta anche una sorta di rito di passaggio per i minorenni. Ubriacarsi a Friuli Doc è la parola d’ordine per gli sbarbatelli che vogliono mostrarsi “macho”, con gli effetti devastanti che si possono immaginare. Non fatevi impressionare questa sera da questi bulletti e siate, invece, comprensivi con chi è più allegro del solito.
Entrate in sintonia con la deliziosa scritta sulle magliette degli addetti agli stand della Carnia: «Cul frico e la polente, la vite a si sostente». Filosofia montanara, anche se resto dubbioso sull’abbinamento al peperoncino proposto non a caso con il nome Attila.
Domani sono in gioco i grandi numeri per il finale delle presenze, ma la stanchezza si farà sentire e i prodotti da consumare in esaurimento. Buon segno. Le grandi tavolate si apriranno per chi arriva da fuori regione, i chioschi saranno meta degli ultimi acquisti e calerà il silenzio anche su questa edizione.
E sarà emesso il giudizio se si è trattato ancora una volta della grande sagra, della stucchevole contrapposizione tra “Pordenone legge e Udine beve” oppure se si sia realizzata quella svolta, definita culturale, fortemente sostenuta dall’assessore al commercio Alessandro Venanzi.
Certo che le manifestazioni collaterali in questo senso sono state davvero numerose. Si è vista poi la volontà di rapportare la qualità del nostro sistema produttivo agroalimentare ai valori identitari, lingua friulana compresa.
Uno sforzo poco supportato però dalle scelte di marketing: in via Mercatovecchio, dove sono schierate le eccellenze, dove marcata è la decisione di mostrare la filiera regionale, risulta carente visivamente qualsiasi identificazione specifica con il Friuli. Solo gli adesivi, ormai datati, su molte produzioni con la scritta «Tipicamente friulano» ricordano questa denominazione, questo valore aggiunto, ma bisogna girare l’angolo per trovarli.
Lo stesso vale per le bandiere e sapete quanto contino i simboli, ma in questi casi chiamiamoli pure marchi. Il primo anno di Friuli Doc tutta la città ne era addobbata, l’aquila sventolava a ogni angolo di via. Voleva essere una festa di popolo che rendeva merito al lavoro e alla sua storia, presentando con orgoglio quanto di meglio sapeva produrre.
Oggi c’è tanta gente, si mangia e si beve, ci si compiace ancora della nostra bravura e professionalità, ma, qualcuno sussurra, «non mettiamoci troppe etichette, altrimenti sembriamo i soliti provinciali».
In piazza Libertà passa una studentessa universitaria, con accanto due sue ospiti, venute a trovarla apposta per Friuli Doc. «Che cos’è quella che sventola sul castello?», chiede una delle due. «La nostra bandiera» risponde la giovane. Credete che potranno dimenticarla o confonderla con altre? Questa è promozione, questo è marketing: «Gustatevi la nostra specialità».
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