Terremoto a Resia, le macerie di Oseacco e Gniva

L’ex consigliere comunale Clemente racconta il dramma vissuto quella notte. Il sisma privò il paese di molte bellezze architettoniche:«Con il senno di poi possiamo riconoscere di aver demolito troppo»

RESIA. Fu una notte di terrore anche a Resia. Il 7 maggio, nella valle dominata dal massiccio del monte Canin, nulla era come prima. Tra i primi a rendersene conto fu Clemente quando da Udine, dove abitava, arrivò a Resia a bordo della sua auto, dopo aver superato il posto di blocco a Rivoli Bianchi, istituito per mettere in guardia la gente dalle frane che continuavano a cadere. Grandi massi ostruivano le strade.

Terremoto in Friuli, macerie in val Resia

Clemente li vide all’ultimo momento e con l’auto finì addosso alla frana. Ma l’ansia di andare nei luoghi della sua infanzia dove vivevano ancora i suoi parenti era più forte della paura provocata anche dalle fiamme che incendiavano il monte Plauris. «Le fiamme minacciavano la ferrovia», racconta Clemente soffermandosi sull’ansia che, in quelle ore, lo accompagnava. Fu il viaggio più lungo della sua vita.

A San Giorgio e a Prato di Resia arrivò all’alba e, stranamente, trovò la gente abbastanza tranquilla. Si chiese: «Perché?». Scoprì poi che il sindaco di allora, Pericle Beltrame, e il brigadiere dei carabinieri avevano sfondato la porta della Cooperativa carnica e distribuito tutte le bottiglie di vino e di grappa che avevano trovato tra la gente.

«Nonostante il giorno prima fosse stata una giornata caldissima, quella mattina - racconta l’ex consigliere comunale - faceva molto freddo. Non era facile muoversi in auto da una frazione all’altra, tant’è che a Prato finii contro una frana e rovinai la macchina. Da San Giorgio arrivai a Oseacco in motorino. «Il paese era un cumulo di macerie, nelle stradine strette non si poteva proprio passare».

A Gniva la situazione era altrettanto disastrosa. Il paese era completamente distrutto. Clemente che nel 1962 aveva lavorato con il Genio civile in Irpinia, sapeva che la presenza della Croce di Sant’Andrea sugli edifici non dava via di scampo.

E a Oseacco e a Gniva vide diverse croci di Sant’Andrea. «San Giorgio essendo collocata su una roccia non aveva subìto molti danni. Anche se in un casolare isolato morì una persona». L’ex consigliere comunale pensa alle molte testimonianze storico-ambientali del luogo perse con il terremoto e se ne dispiace. Cita le case veneziane e la chiesa settecentesca vincolata dalle Belle arti.

Crollò anche buona parte dell’altra chiesa, inaugurata nel 1960. A fatica, riuscirono a salvare l’abside maggiore, le colonne in marmo e il mosaico realizzato dalla scuola mosaicisti di Spilimbergo, raffigurante i Santi Vito, Modesto e Crescenzia.

Geograficamente, Resia era fuori dal mondo. Quella notte nessuno si premurò di telefonare per sapere come stava la gente da quelle parti. «Il giorno dopo - continua Clemente - io e il sindaco andammo in prefettura e a Venzone incontrammo alcuni militari che non sapevano nulla di cosa era accaduto nei paesi di montagna.

Scrissero un appunto e nelle ore successive anche a Resia arrivarono gli alpini che salvarono la situazione allestendo le tendopoli». L’ex consigliere comunale ricorda, infatti, che in quei momenti non c’era nulla a disposizione, né cibo né abiti. Tutto era rimasto sotto le macerie.

«Vivevamo con quello che cucinavano gli alpini», riconosce citando volentieri il capitano che per superare la perdita della moglie, si era buttato a capo fitto nella gestione dell’emergenza del post terremoto. Anche in questa vallata la gente sperava di uscire, in tempi rapidi, dalle tende per entrare nelle nuove case. Non fu così, a settembre le nuove scosse uccisero anche i sogni.

La speranza però non aveva abbandonato la gente di Resia che rifiutava le facili promesse. Tutti ricordano quando il direttore della testata “La provincia di Como”, Gianni De Simone, con alcuni imprenditori lombardi, arrivò a Oseacco e disse: «Vogliamo costruire un intero villaggio» e gli amministratori non gli credettero.

«Ci sembrava un progetto irrealizzabile, un’utopia» ammette Clemente. Compresa le perplessità degli amministratori, il giorno dopo, il gruppo si ripresentò a Oseacco con in testa il sindaco di Forni Avoltri, il quale confermò che ai tempi dell’alluvione del 1966 lo stesso gruppo era intervenuto anche nel suo comune.

Erano affidabili. Di fronte a quella garanzia, i tecnici del Comune sorvolarono con un elicottero militare la zona e individuarono i terreni, li espropriarono senza scatenare le ire della gente e tre mesi dopo, con i fondi raccolti tra i lettori, “La Provincia di Como” realizzò il villaggio “Lario” caratterizzato da 27 case in muratura.

Furono le prime case inaugurate nella zona terremotata. A collaudarle fu il terremoto di settembre: «Non riportarono alcun danno» assicura Clemente. La diffidenza iniziale nasceva da un’esperienza precedente. «Il direttore di un giornale di Vienna venne da noi con un architetto e ci proposero la realizzazione di una trentina di casette. Volevano arrivare con un’autocolonna da Chiusaforte, fare una gran scena, e lasciare a noi l’onere della realizzazione delle fognature e dell’impianto di riscaldamento. Tutto questo - aggiunge Clemente - avveniva mentre la Regione e il commissario Zamberletti si organizzavano con il piano dei prefabbricati. Ci fidammo della Regione e dicemmo no agli austriaci che volevano fare un’azione dimostrativa».

Con i fondi rimasti dopo la costruzione del villaggio “Lario” venne realizzata anche la stalla sociale pensando che potesse rappresentare uno sbocco lavorativo per la gente della vallata. Il terremoto fece da spartiacque, il dopo era tutto diverso da prima. Cambiarono gli stili di viti e la gente, lì come altrove, preferì la fabbrica all’agricoltura e all’allevamento.

Questo è solo un esempio del carattere dimostrato dai resiani nella gestione dell’emergenza del post terremoto. E il sindaco che conosceva la tempra dei suoi cittadini quando si trattò di dare il via alle vaccinazioni per evitare le malattie infettive, fece esporre gli inviti scrivendo che l’indomani sarebbe arrivato un camion di aiuti dalla Baviera.

I cittadini caddero nella “trappola”, si presentarono all’appuntamento, ma anziché trovarsi di fronte alla distribuzione degli aiuti, si trovarono in fila per le vaccinazioni. «Pensi - racconta l’ex consigliere comunale - che questo aneddoto finì nel racconto in resiano scritto dai bambini a Grado, ai tempi dell’esodo, e pubblicato dalla Società filologica friulana».

Abituata a vivere in montagna, la gente di Resia non si perse d’animo, si rimboccò le anime e già il giorno dopo il terremoto pensava a come rimettere in piedi le case. Basti pensare che 10 giorni dopo la terribile scossa che distrusse il Friuli, a Resia le scuole erano nuovamente funzionanti. «La Croce rossa bavarese - continua Clemente - ci aveva donato alcuni tendoni per rendere nuovamente fruibili i servizi pubblici».

In questo clima di incertezza emergeva l’appartenenza ai luoghi dove le parole d’ordine erano rigore e dovere. Lo conferma il fatto che quando l’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, in prefettura a Udine, disse ai sindaci che lo Stato avrebbe sanato il deficit dei Comuni, il primo cittadino di Resia si arrabbiò: «“Ma come - ribattè - a noi della montagna che abbiamo fatto di tutto per evitare i debiti non date niente?”. Lo disse con una tale convinzione - aggiunge Clemente - che Cossiga gli rispose “lei di che cosa ha bisogno?”».

Beltrame segnalò che Resia non aveva più il municipio e il ministro autorizzò il sindaco a realizzare un prefabbricato e a mandare il conto a Roma. Così fu. Il ministero dell’Interno pagò la sede provvisoria del municipio di Resia che venne utilizzata per un ventina d’anni.

Altrettanto significativa fu l’autocolonna di aiuti del presidente della Repubblica organizzata dal luogotenente dei corazzieri del Quirinale, Francesco Madotto, cittadino di Resia. «La colonna non arrivava mai poi scoprimmo che che aveva scambiato Resia con Resia d’Adige» ricorda ancora l’ex consigliere comunale assicurando però che seppun con un po’ di ritardo gli aiuti arrivarono nel posto giusto.

Intanto passavano i mesi estivi e la gente guardava le montagne temendo che da lì a poco comparisse la neve. Il freddo era alle porte e i resiani non poteva più vivere nelle tende. Giunse settembre e il nuovo terremoto. Scattò l’esodo, ma nonostante il Comune facesse di tutto per convincere i cittadini a lasciare i luoghi di sempre, qualcuno non voleva proprio saperne.

«Riuscimmo a trasferirli tutti, ma alcuni giorni dopo uno tornò e trascorse l’inverno qui. Le immagini della tenda sotto la neve hanno fatto la storia di Resia» aggiunge Clemente soffermandosi sul problema delle frane, quelle stesse frane che il 15 settembre vide scendere dal monte Plauris.

Resia è anche il comune dei primati. Nella tendopoli di Oseacco, Lino e Loretta Madotto si giurarono amore eterno. Furono la prima coppia a sposarsi nella zona terremotata. Avrebbero dovuto farlo l’8 maggio a Castelmonte, ma la scossa glielo impedì.

«Furono gli amici a organizzare la cerimonia - racconta Lino -, ci sposò don Giuseppe De Colle, lo storico parroco di Oseacco». Gli alpini, per l’occasione, cucinarono il pranzo nuziale per tutti, compresa la torta. La festa venne allettata dal gruppo folcloristico di Resia a dimostrazione che la vita andava avanti.
 

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto