Terremoto a Tarcento, Carlo Della Giusta ricorda: «camminavo scalzo sulle macerie»

«La mamma mi impedì di guardare, ma il rumore dei crolli lo sento ancora»

TARCENTO. «È un giovedì sera come gli altri e mio padre, come ogni settimana, aveva un appuntamento per le prove della banda locale di Coia. Io, bambino di sette anni, ero a casa con mia mamma, guardavamo la televisione».

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Comincia così il racconto del 6 maggio 1976 di Carlo Della Giusta, un bambino di Tarcento che il terremoto l’ha soprattutto sentito: i suoi occhi non hanno quasi scorto nulla, ha filtrato tutto con i piedi e con le orecchie. Non è riuscito a dimenticare la sensazione che provò quando si ritrovò a camminare a piedi scalzi sulle macerie e la distruzione interiore che percepì tra i suoi familiari usciti vivi da quella catastrofe.

«Erano le nove di sera, faceva già buio in quei primi giorni di maggio - racconta -. Io ero già in pigiama, pronto per andare a dormire, scalzo, un particolare che ricordo bene. All’improvviso, una prima breve scossa. Inutile dire che io il terremoto non l’avevo mai sentito nominare.

Mia mamma, appena trentenne, mi aveva raccontato di aver sentito raccontare le storie sul terremoto dai vecchi del paese e che per salvarsi bisognava rifugiarsi sotto gli stipiti delle porte. Questa leggenda, sentita chissà da chi, chissà in che modo o a quale età, salvò la vita a entrambi».

Giunse la seconda scossa, calò il buio e, contemporaneamente, continua Carlo, «il boato del terremoto. Un rumore inconfondibile, una specie di tuono che si sentimmo arrivare da lontano, ci travolse risvegliando la nostra paura dal profondo.

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Io non ebbi il tempo di capire che cosa stava succedendo perché la mamma mi strinse forte tenendomi la faccia premuta contro il suo grembo. Mi disse di stare fermo, vicino a lei, e di non guardare. Riuscì nel suo intento, ma non mi impedì di sentire: il rumore è una cosa che ti porti dentro tutta la vita.

Il frastuono delle cose che cadevano, dei calcinacci, dei sassi, dei muri che cigolavano e stavano per cadere. Poi, grazie al cielo, tutto finì. Eravamo al buio e c’era polvere. Era tutto fermo, un silenzio spettrale. Eravamo tutti interi, salvi».

Carlo non conserva la memoria visiva della tragedia, ricorda solo quel secondo in cui riuscì a girarsi. Quella che invece gli è rimasta marchiata a fuoco è «la memoria uditiva. Il fracasso, il crollo, la voce piena di paura di mia mamma, che ti faceva vedere l’inferno che tu non vedevi».

«Ero scalzo e sotto le piante dei miei piedi calpestai le macerie che ci avrebbero travolto se fossimo scappati prima, in preda al panico, e non ci fossimo fermati sotto lo stipite della porta. C’erano calcinacci, tegole, macerie più o meno lisce, ruvide, spigolose. E un solo pensiero, drammatico: “Chissà dov’è il mio papà”. Non so dire per quanto tempo lo aspettammo sperando che non gli fosse capitato nulla».

L’Orcolat lo sorprese mentre provava le musiche che avrebbe dovuto suonare con la banda di Coia, col suo bel sassofono comprato da poco, come ogni giovedì. «Mio padre dalla bella frazione di Coia situata sulla prima collina morenica, assieme agli altri compagni della banda, per fortuna all’aperto e dunque fuori pericolo, sentì e vide tutto.

La cosa che lo devastò fu vedere le case del paese sottostante cadere, e soprattutto sentire nel buio un rumore di crollo continuo. Non potè non pensare che là in mezzo c’era la sua giovane moglie e il suo unico figlio.

Finita la scossa, salì in auto, una Fiat 126 verde, mollò nel sedile posteriore il sassofono che aveva ancora con sé, e si precipitò a casa per vedere cosa era successo.

Né io né mia mamma riuscimmo a stimare da quanto tempo lo stavamo aspettando. Eravamo stretti l’un l’altro, guardavamo la strada principale in direzione est, dalla parte in cui avrebbe dovuto arrivare. Gli occhi, lo sguardo e il cuore sobbalzavano a ognuna delle poche auto che arrivavano da quella direzione. Eccolo, era lui».

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Si abbracciarono, erano vivi. «Mi misero a dormire nel sedile posteriore della 126 da dove guardavo i vicini passare. Al mio fianco il sassofono, ricordo il suo scintillio quando qualche torcia veniva puntata contro». Carlo riconosce di essere stato fortunato perché i suoi genitori, i parenti, gli amici e i conoscenti erano tutti vivi.

Ma aggiunge: «Molti di loro sono morti dentro. Questa è la distruzione silenziosa che nessuno ha potuto documentare, molto più devastante di quello che si vede nelle fotografie e nei documentari.

Una cifra imprecisata di persone disintegrate al loro interno e mai più tornate come prima, schiacciate dalle macerie invisibili delle loro certezze crollate. Purtroppo tra loro c’era anche mio padre».

Quarant’anni dopo Carlo ricorda proprio quel tipo di distruzione. «Ogni volta che mi capita di camminare scalzo sull’erba - rivela - rivivo la stessa sensazione dei miei piedini di bimbo di sette anni che calpestano l’erba dopo aver camminato sulle macerie, sulla strada verso il portone di casa quella sera del 6 maggio 1976».

 

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