Terremoto a Tolmezzo, Ruffini: «ricordo lo sguardo immobile dei genitori di un bimbo che morì»

La sera del 6 maggio 1976, Mario Ruffini, primario Medico all’ospedale di Tolmezzo, fu tra i primi ad arrivare in nosocomio

«Ricordo il caos e il terrore. Eravamo come in guerra, dovevamo intervenire precipitosamente». La sera del 6 maggio 1976, Mario Ruffini, primario Medico all’ospedale di Tolmezzo, fu tra i primi ad arrivare nel nosocomio e si ritrovò solo con il dottor Euro Marchetti, a gestire l’emergenza. Quella notte anche gli infermieri suturavano e medicavano le ferite assieme ai dottori.

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«Gli ascensori erano bloccati. Tutti i pazienti ricoverati - racconta Ruffini - erano scesi precipitosamente dai reparti e si erano dispersi nel prato. Alcuni scendevano dal settimo e sesto piano trascinando i pesi delle trazioni sugli arti fratturati.

I lamenti e le richieste di aiuto si sovrapponevano in un caos indescrivibile». Più tardi iniziarono ad arrivare «camion con decine di feriti anche gravi, mentre molti degenti in pigiama, all’aperto, erano in preda al panico».

Ma quello che colpì e che il primario non ha mai dimenticato furono «alcune perdite strazianti. Tra queste la figlia sedicenne dell’architetto che aveva progettato l’ospedale, non fu possibile trasfonderle sangue e neppure trasferirla a Udine perché la strada era bloccata da un crollo.

Morì nell’ambulanza per Udine il mattino, quando fu riaperta la strada». Ruffini ricorda anche quando «cercammo di rianimare un bambino di 6 anni che morì subito. Ho sempre come in un incubo lo sguardo immobile amimico, quasi incredulo dei due giovanissimi genitori».

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Fu una notte terribile. «La mattina - continua Ruffini - giunsero gli elicotteri americani, la strada per Udine fu riaperta, e potemmo trasferire i pazienti acuti a Padova, Udine e Pordenone. L’ospedale fu chiuso.

Subito assieme all’infermiera Daniela Bonanni e allo studente di Medicina Rossi, poi assunto, scendemmo a Osoppo dove ci imbarcammo su un carro armato “Leopard” disarmato dell’Esercito. Aprivamo brecce sulle strade e creammo sette posti-tenda con letti ad Avasinis, Alesso, Interneppo, Bordano, Trasaghis, Peonis e Braulins.

Le mattine successive tornavamo a visitare e a eseguire Ecg sui pazienti. Un amministratore mi reguardì perché disse che quelle cose dovevo “farle solo in Carnia”». Ma nonostante ciò il dottor Ruffini ricevette, queste le sue parole, «un compenso non richiesto e inaspettato e il prolungato plauso caloroso unite a tre raccolte firme di genti e dei medici della Carnia che, assieme al popolo dell’Eritrea del quale sono profugo, ritengo miei fratelli».

 

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