Terremoto del Friuli, 45 anni dopo: «A Trasaghis, Buja e Cavazzo ho visto la rinascita, facciamo tesoro della storia»
UDINE. Aveva conseguito la laurea in Architettura l’anno precedente e mai avrebbe immaginato di affinare la professione sulle macerie del terremoto. Prima da volontario poi da dirigente dell’ufficio tecnico di Buja e Cavazzo Carnico, l’architetto Giorgio Dri, ha contribuito alla gestione della primissima fase dell’emergenza per poi avviare l’attività da libero professionista progettando parte della ricostruzione del Friuli. Quarantacinque anni dopo, Dri ripercorre quelle tappe, analizza con il senno di poi la concretezza delle scelte sempre condivise con i terremotati e invita a riflettere sulla capacità di trasformare un momento terribile in un’opportunità di sviluppo. «Andrebbe fatto uno sforzo per recuperare questa storia, per catalogare gli archivi e per trasmettere le testimonianze ai giovani. Oggi le istituzioni fanno le ordinanze, si è ribaltato lo stimolo che avevano un tempo nel prefigurare le leggi» afferma l’architetto citando solo un esempio: la legge 33 del 21 luglio 1976. «L’anima di quella legge fu l’ingegner Roberto Gentilli, l’allora direttore regionale del servizio Urbanistica» continua Dri facendo notare che a soli due mesi dalla tragedia già si andava delineando la base di un modello risultato vincente.
Nel 1976 Dri insegnava Scienze delle costruzioni, Estimo, e Disegno tecnico agli studenti dell’istituto Malignani di Tolmezzo. Dal capoluogo carnico rientrava in corriera e il 6 maggio a Venzone il suo sguardo si posò sull’architettura del Pio istituto elemosiniere già trasformato in casa di riposo. Colse la serenità degli anziani, la bellezza del borgo che poche ore dopo si sbriciolò come avvenne per molti edifici in altri 136 comuni del Friuli. «Quella sera avrei dovuto partecipare nella sezione del Partito Comunista di Gemona alla riunione indetta per discutere sull’uscita dell’autostrada Udine-Carnia, ma non ci andai perché in precedenza mi ero preso del tempo per studiare il progetto dell’infrastruttura.
Per quanto riguarda il casello le ipotesi sul campo erano due: Osoppo, vicino alla zona industriale, e Gemona, in località Lessi. I maggiorenti di Gemona volevano l’uscita nel loro comune, contrari a tale ipotesi erano gli agricoltori di Lessi preoccupati per la inevitabile perdita di tanti campi coltivati. A me, portato a Gemona da un amico di amici, chiesero di predisporre un documento da presentare al sindaco e da utilizzare per sostenere le “lotte” degli agricoltori». La sera dei 6 maggio, quindi, Dri rimase a Udine: «L’amico con il quale andavo mi raccontò che dopo il terremoto uscirono dalla finestra, la sua Dyane era praticamente distrutta. A Udine arrivò nella tarda mattina del venerdì, utilizzando mezzi di trasporto di fortuna. Nessuno riportò ferite o danni ma l’esperienza vissuta non la dimenticarono mai».
Neppure Dri ha dimenticato l’esperienza vissuta da volontario a Trasaghis. Ricorda con quanta determinazione e voglia di ricominciare i terremotati gli chiedevano insistentemente «venga a vedere se la mia casa sta in piedi». Il primo periodo era a Peonis e lì il 16 maggio rimase colpito dalla morte del capitano dell’Aeronautica canadese, Ronald George Mc Bride. L’elicottero pilotato dal canadese impegnato a portare generi di prima necessità alle popolazioni isolate nei paesi circondati dalle frane, aveva urtato contro un filo a sbalzo e per il comandante non ci fu nulla da fare. «Il giorno dopo il commissario Zamberletti firmò un’ordinanza che obbligava a rilasciare le funi delle teleferiche» racconta Dri commemorando il capitano come fanno, tutti gli anni, gli abitanti di Trasaghis. «L’esercito portava i contenitori con i viveri nelle varie frazioni, Peonis si raggiungeva guadando il Tagliamento, utilizzando le macchine per il movimento terra: mezzi enormi con i quali si andava da una parte all’altra del fiume».
E in questo andare e venire Dri rimase colpito dalle parole di un anziano: «Da qui non mi muovo» disse l’uomo ipotizzando che, così come era accaduto nei secoli precedenti, un altro terremoto di pari entità avrebbe potuto ripetersi dopo 200 anni. A Trasaghis venne organizzata la tendopoli, una struttura coperta per la mensa e la cucina da campo gestita dall’esercito «con un caporale che per fare la frittata per tutti utilizzava 250 uova». Allora, aggiunge Dri, «la preoccupazione delle persone era andare a dar da mangiare al bestiame», in troppi potevano contare solo su questa abitudine. Dri ricorda la tendopoli messa a rischio dalle frane. Ricorda i volti impauriti di chi temeva davvero che fosse tutto finito. All’epoca non esistevano zone rosse, la gente entrava continuamente nelle case lesionate a recuperare ciò che era rimasto. «A Peonis crearono una sorta di guardia armata notturna per evitare che le persone andassero nelle case distrutte» racconta l’architetto sapendo di non poter fare paragoni con l’attuale gestione delle emergenze.
Il tecnico comunale
Da dirigente dell’ufficio tecnico di Buja, Dri contribuì ad allestire gli uffici comunali al piano terra della villa di Collosomano creando pareti in legno. Molti municipi erano caduti. Qui l’architetto ha quantificato i danni subiti dagli immobili, dalla viabilità e dalle infrastrutture. Lo fece applicando la legge 33 che prevedeva l’individuazione delle aree per i servizi provvisori, la perimetrazione delle zone per i piani particolareggiati dei centri abitati e l’individuazione dei siti da adibire a discariche. Ricorda la sistemazione delle persone dalle case ai box, dove i terremotati pensavano di trascorrere solo i mesi estivi.
«A Cavazzo c’era uno che riusciva a procurarli e ne ha venduti tantissimi, vennero trasformati in piccole casette di fortuna con qualche parte in cemento e altre in lamiera. Negli anni Ottanta assieme all’allora sindaco e consigliere regionale Franceschino Barazzutti, siamo dovuti andare a parlare con il presidente del Tribunale di Tolmezzo per convincerlo a chiudere un occhio: i box erano tutti fuori norma». Ora l’aspetto su cui si sofferma Dri è il confronto costante con la popolazione, molto diverso e sicuramente più intenso rispetto ai metodi di democrazia partecipata adottati tutt’oggi.
«Di fronte a un futuro senza soluzione, affidarsi a persone che ti ascoltano è fondamentale. Anche questo è uno dei motivi di successo della ricostruzione: il successo ce l’hai nel momento in cui ti confronti. Allora, per essere abilitato, dovevi conoscere ogni dettaglio degli edifici in cui andavi a mettere mano, dovevi dialogare e fornire soluzioni altrimenti venivi considerato uno dei tanti che parlavano e venivano da fuori». Di fronte alla concretezza dei friulani si sono dovuti adeguare anche i politici, i tecnici e gli amministratori. I sindaci hanno svolto un ruolo fondamentale assumendosi responsabilità senza precedenti.
«Cavazzo Carnico era un comune fuori accorpamento e per far si che ci fosse la certezza che quanto progettato venisse realizzato, in una stanza al piano terra del municipio era stato allestito una sorta di campionario dei prodotti ammessi a contributo. In modo elementare, il Comune si era impegnato con i proprietari a non farli sostenere spese superiori al contributo che gli veniva riconosciuto». I proprietari ricevevano il 50 per cento a inizio lavori, il 40 a metà della realizzazione e il rimanente alla chiusura del cantiere. «Dalla firma dei decreti in due giorni i soldi venivano accreditati». Dri potrebbe parlare per ore anche dell’esperienza vissuta da progettista nell’era della ricostruzione. Continua a farlo per trasmettere la memoria ai giovani. «Questa storia – ripete – va raccolta nel centro di Documentazione di Venzone al quale ho donato le 365 copie del Messaggero Veneto che avevo conservato dal 6 maggio 1976, nel primo anno del post terremoto».
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