Terremoto del Friuli, dopo 40 anni cerca i 4 militari che le salvarono la vita
GEMONA. «Voglio conoscere i quattro militari che la notte del 6 maggio 1976 mi salvarono la vita». Mariarosa Copetti, operaia alle Manifatture, aveva 22 anni, quando il terremoto sconquassò la sua esistenza. Lei e la bambina che portava in grembo si salvarono per miracolo grazie ai quattro alpini che a Gemona alta la soccorsero quando il suo battito cardiaco non si sentiva quasi più.
Dopo aver girato tutti gli ospedali della zona, i militari riuscirono a trovare un posto al Gervasutta dove Mariarosa subì l’amputazione di una gamba, ma si salvò e a dicembre diede alla luce Francesca.
A 40 anni da quella terribile notte, sente il bisogno di guardare negli occhi i suoi salvatori e attraverso il Messaggero Veneto lancia un appello: «Voglio ringraziare quelle persone».
Quella di Mariarosa è una storia che fa rabbrividire e che invoglia a guardare avanti con fiducia sempre e comunque. Il 6 maggio 1976, sul finire di una giornata caldissima, in via Scugelars 38, Mariarosa era nella sua casa con il padre Francesco.
Il boato dell’Orcolat (nella tradizione popolare rappresenta il terremoto) li spinse a uscire, se non altro per raggiungere la madre che lavorava nell’orto.
Non fu facile: «il terremoto - racconta Mariarosa - ci buttava da una porta all’altra e quando arrivammo oltre l’uscio ci caddero addosso il terrazzo e un pezzo di muro». Intrappolati tra le macerie usarono tutta la forza che avevano in corpo per riuscire a liberarsi.
Alcuni vicini li sistemarono sul prato in attesa dei soccorsi. Fu un’attesa estenuante. A Gemona alta non arrivava nessuno, in quelle ore non era facile farsi largo tra le macerie. «Mio papà è morto all’1 del mattino, poteva salvarsi se solo qualcuno fosse arrivato in tempo», ripete Mariarosa esibendo la medaglia con incisa l’immagine di Francesco che da quella notte porta al collo. «Lo sento sempre vicino, non mi ha mai lasciata».
Ma torniamo a quella notte. Nonostante la morte del padre, Mariarosa continuava a sentire la forza della vita crescere nel suo corpo.
Era incinta, l’aveva scoperto il giorno prima ed era determinata a vivere quel lieto evento che aveva cercato con determinazione. «Volevo un figlio a tutti i costi, l’ho cercavo da tempo senza successo. Appena fissata la data del matrimonio (27 maggio) rimasi incinta. Ero felice» racconta la donna che anche quella notte continuava a ripetere «sono incinta» quasi fosse una preghiera.
Mariarosa capiva che le forze la stavano abbandonando, il suo piede continuava a sanguinare e il battito cardiaco era sempre più flebile. «Un vicino di casa capì che le mie condizioni erano gravi, andò a cercare aiuto e trovò i quattro militari con l’ambulanza. Quando arrivarono ero in fin di vita, mi fecero un’iniezione di morfina e mi caricarono, assieme a mia madre, sull’ambulanza». Mariarosa ricorda tutto anche la spola che l’ambulanza fece da un ospedale all’altro senza successo.
«Alle 4 del 7 maggio arrivammo al Gervasutta, dove mi presero davvero per i capelli. Il primario mi disse che ero viva solo perché aspettavo un bambino. Quel ciclo mestruale mancato mi aveva consentito di prolungare di qualche ora la mia esistenza. Giusto il tempo per arrivare in ospedale».
Mariarosa è una donna forte, ma quando torna con la mente a quei momenti un velo di commozione le offusca lo sguardo. Tornare indietro di 40 anni e rivedersi nel letto d’ospedale con il piede irrecuperabile e la febbre alta provocata dall’infezione che i medicinali non riuscivano a contrastare, le fa ancora male.
«Sabato mattina i medici intervennero una prima volta senza, però, riuscire a bloccare la cancrena. Fu il professor Motta a dirmi “Mariarosa bisogna tagliare la gamba”». Fu un brutto colpo, l’ennesimo in quei giorni caotici in cui nulla era più al suo posto. Ancora un volta Mariarosa raccolse le forze ed entrò in sala operatoria pensando al cuoricino che batteva nel suo ventre.
«Furono giorni difficili - ammette - volevo camminare a tutti costo. Mi muovevo con le stampelle, inciampai, caddi e la ferita si riaprì». Mariarosa fu costretta a subire l’ennesimo intervento chirurgico. Non voleva arrendersi, neppure per un attimo le sfiorò l’idea di rinunciare alla famiglia che il terremoto aveva messo in discussione in quella sera di maggio. «Il 20 giugno mi portarono la prima protesi, il 3 luglio arrivò pure la lettera di dimissioni. Il 14 luglio mi unii in matrimonio con l’uomo che amavo e il 30 dicembre nacque mia figlia Francesca».
Quello fu il momento più bello della sua vita, segnata per sempre dal terremoto. Quando venne alla luce Francesca, Mariarosa sapeva che per lei, a Capriva del Friuli, iniziava l’esistenza che assieme al marito, Guido Simionato, aveva sognato prima del sisma. Non può dimenticare l’emozione provata nell’incrociare lo sguardo di Guido dopo il disastro.
Era l’8 maggio. «Il giorno prima andò a cercarmi a Gemona, ma trovò solo il corpo privo di vita di mio padre. Nessuno sapeva dove mi avevano portata e per lui iniziò il pellegrinaggio nei pronto soccorsi della zona. Al Gervasutta ci riunimmo l’8 maggio».
Mariarosa e Guido si abbracciarono, sapevano che la loro unione sarebbe stata per sempre. Quel gesto d’amore segnò anche il futuro della donna che lottò, nuovamente, con tutte le sue forze per riprendersi la sua vita. La protesi sostituita per ben tre volte non le impedì di continuare a ballare con la passione di sempre, di seguire un corso di nuoto e di fare tutto quello che faceva prima.
Mariarosa non fatica a ricordare il suo calvario, «lo faccio per dare un messaggio di speranza ai giovani, per spronarli ad affrontare con coraggio le difficoltà». E con altrettanto coraggio vuole stringere la mano dei quattro militari che le salvarono la vita in quella terribile notte quando tutto sembrava perduto. «Da quanto mi è stato riferito, erano quattro alpini.
Senza di loro né io né mia figlia non ce l’avremmo mai fatta» insiste spinta dal progetto del Messaggero Veneto a cercare coloro che la accompagnarono in ospedale. «Sono stati i militari a portarmi giù da Gemona alta, bastava poco e sarei morta sul prato davanti alla casa distrutta».
Noi proviamo a raccogliere quell’appello per consentire a Mariarosa di scrivere l’ultima pagina della sua storia a lieto fine, nonostante tutto. Non conosce i nomi dei suoi salvatori, non sa neppure se erano friulani. Potrebbe trattarsi di quattro volontari arrivati da fuori regione nelle ore successive alla scossa che distrusse il Friuli. Potrebbe trattarsi, però, anche di quattro alpini di stanza nei comuni terremotati messi a disposizione dall’esercito per soccorrere la popolazione.
Mariarosa non conosce le loro vite, vuole solo dirgli grazie per quel gesto di umanità, ma soprattutto per averle dato la possibilità di diventare mamma e nonna. Se i quattro militari si riconoscono in questa storia possono contattare il Messaggero Veneto attraverso l’indirizzo e-mail terremoto1976@messggeroveneto.it, i profili Facebook e Twitter o il sito internet www.messaggeroveneto.it
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