Terremoto, il cotonificio di Gemona raso al suolo
GEMONA. «Man mano che mi avvicinavo al cotonificio, mi sorprendevo del fatto di non vederlo apparire. Era un edificio alto, ma non realizzai subito che il sisma lo aveva raso al suolo. Quando fui abbastanza vicino da comprendere l’entità del disastro, lo choc fu tremendo».
All’alba del 7 maggio 1976, dopo aver cercato invano di mettersi in contatto con gli uffici del cotonificio di famiglia, Carlo Burgi si precipitò a Gemona da Milano, dove risiedeva, accompagnato dal fratello Tito.
«Lungo il tragitto - racconta - ascoltavamo la radio nell’angosciante tentativo di capire qualcosa in più. Quando arrivammo a Gemona trovammo un posto di blocco sulla statale e fummo costretti a raggiungere lo stabilimento attraverso i campi.
Una volta giunti di fronte a quel che rimaneva della manifattura, ci assalì la disperazione: il direttore, che aveva trascorso tutta la notte a vegliare le macerie, sosteneva che lì sotto potevano esserci 100 morti».
Quella sera di 40 anni fa dovevano essere di turno 120 persone. Ci vollero un paio di giorni per capire quanti operai si erano salvati e quanti invece erano rimasti intrappolati nel crollo.
Il bilancio delle vittime fortunatamente scese perché la maggior parte dei dipendenti, dopo la prima scossa, riuscì a scappare. Tuttavia, l’Orcolat si portò via 11 vite, di cui la maggior parte erano donne.
«L’esercito - prosegue Burgi - arrivò in nostro aiuto nel pomeriggio del 7 maggio. Furono ore drammatiche. Ricordo ancora la frase che ci disse un volontario svizzero, atterrato con l’elicottero poco lontano da noi: «Dobbiamo cercare i vivi, non i morti».
Erano muniti di cani e si diressero verso il centro di Gemona. Dopo alcune ore salimmo anche noi. Quello che trovammo è impresso a fuoco nella mia memoria: le salme allineate davanti a quello che restava delle loro case, i volti dei sopravvissuti sfigurati dal dolore e da una notte passata a scavare a mani nude tra le macerie».
Furono necessari dei giorni per riprendersi, ma «in tutti noi - aggiunge Burgi - crebbe la volontà di ripartire. Piangevamo i morti ma fummo costretti a pensare ai vivi. Non avevamo scelta. Recuperammo le balle di cotone e i pochi macchinari che non erano stati danneggiati dai crolli.
Determinante fu l’aiuto dei nostri concorrenti, che lavorarono la materia prima per conto nostro, e quello dei clienti, che non ci abbandonarono pur sapendo che non eravamo noi a produrre direttamente». Quella memorabile prova di solidarietà riempie di orgoglio e di gratitudine Carlo Burgi, il quale rammenta come nel 1976, anche con il cotonificio a terra, l’azienda produsse lo stesso fatturato dell'anno precedente.
«Posammo la prima pietra del nuovo cotonificio a soli 7 mesi dal sisma e due anni dopo inaugurammo lo stabilimento. Ricordo che mio padre Luigi volle ricostruire al meglio, e questo, assieme alla dedizione dei nostri dipendenti, fece la differenza.
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