Terremoto, il Friuli unico modello in un mare di sprechi

Dossier del Senato: la ricostruzione post ’76 è la sola ad aver funzionato. Fondamentale il ruolo dei sindaci e di una popolazione «molto attiva»
Venzone 10 marzo 2017 Panoramiche del paese. Copyright Foto Petrussi / Ferraro Simone
Venzone 10 marzo 2017 Panoramiche del paese. Copyright Foto Petrussi / Ferraro Simone

UDINE. Il tempo è galantuomo, sempre, e con il suo scorrere inesorabile incastra tutte le tessere del mosaico al loro posto riuscendo, in questo caso, pure a cancellare le – per la verità minime – accuse di autoreferenzialità retorica. La ricostruzione in Friuli, infatti, non è più soltanto un modello da prendere a riferimento, ma è ufficialmente l’unica gestione di un post terremoto che, negli ultimi 70 anni, ha funzionato e può considerarsi a pieno titolo conclusa con successo.

 



È scritto nero su bianco nel documento di analisi sulla storia dei terremoti nel nostro Paese curato dall’Ufficio valutazione impatto del Senato voluto fortemente dal numero uno di palazzo Madama Pietro Grasso. Il 1976, tra maggio e settembre, rappresentò la prima grande strage legata a un sisma nella storia repubblicana: oltre mille morti, 2 mila 400 feriti, 189 mila sfollati e una devastazione che interessò 137 Comuni. Ma a oggi, quella data, si è trasformata anche nell’unico punto di partenza per una ricostruzione che nella Penisola è diventata sinonimo di orgoglio, efficienza, responsabilità, collaborazione intra-istituzionale e, a onor del vero, anche di volano per un definitivo cambio di paradigma in una terra che rinacque come una delle spine dorsali dell’economia nazionale.

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Due giorni dopo l’Orcolat, l’8 maggio, il Consiglio regionale stanziò con effetto immediato 10 miliardi di lire, poi il presidente Antonio Comelli varò quella segreteria generale straordinaria per la ricostruzione che gestì, negli anni, con maestria e sagacia la mole di denaro che Roma girò a Nordest. Sì, perché questa è anche una storia in cui lo Stato fu determinante sia con la nomina da parte di Giulio Andreotti del commissario straordinario Giuseppe Zamberletti – il padre della moderna Protezione civile nata in Friuli – che attraverso le agevolazioni fiscali e contributive (il conto complessivo della ricostruzione equivale, stando al Centro studi degli ingegneri italiani, a 4 miliardi e 780 milioni di euro nominali), ma poi si fece da parte.

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E lo si legge, nitidamente, nella relazione del Senato quando si sostiene come la segreteria straordinaria gestì «con fermezza e coraggio decisioni quali lo sgombero delle macerie e le norme sanitarie da adottare, l’esodo di parte della popolazione (anziani e bambini) verso le località costiere, la ripresa delle attività lavorative e dei servizi pubblici» scegliendo un modello di ricostruzione «del tipo com’era e dov’era» puntando sulla collaborazione dei sindaci, vere architravi delle gestione dei fondi derivanti dalle leggi nazionali – appena sei in totale, un record nel mare magnum del solito caos burocratico italiano – affinché i primi cittadini potessero gestire con velocità ed efficienza i lavori nei loro territori.

C’è di più, però, nel dossier di palazzo Madama. Qualcosa che trova una sua sintesi estrema nei concetti de “Il Friûl al ringrazie e nol dismentee” e in quell’atavica volontà dei cittadini di questa terra di difendere un concetto antico come i nostri paesi: quel fasin di bessôi che spiega perché quasi sempre, ancora oggi, in Friuli si guardi con non poca diffidenza alle “ingerenze” romane. Il Senato, entrando nel dettaglio, evidenzia come i 189 mila senzatetto «calarono presto drasticamente: dopo soli quattro mesi erano 45 mila» e questo non sarebbe stato possibile senza l’aiuto dell’esercito, l’allestimento delle tendopoli e la “requisizione” di migliaia di roulotte oltre agli appartamenti e agli alberghi lungo la costa adriatica. Ma poi sottolinea che «i sindaci gestirono al meglio e rapidamente la ricostruzione» e che la popolazione «reagì al disastro in maniera molto attiva».

Un’architrave, questa, dell’animo, profondo, dei friulani esplicato – in maniera indelebile ed eterna – da quella frase di Lucia, giovane ragazza di Majano, che di fronte all’incredulità dell’inviato della Rai che le chiese «ma perché non piange?» rispose, continuando a guardare la propria casa con animo fiero e senza degnarlo di uno sguardo: «qui c’è poco da piangere, qui c’è da ricostruire». Avrebbe scoperto, poi, il giornalista della tv di Stato, al pari del resto d’Italia, che i friulani si tengono dentro il dolore e le lacrime perché in fondo sanno (o sapevano?) fare bene, essenzialmente, una cosa: rimboccarsi le maniche e darsi da fare senza attendere che qualcuno, da fuori, risolva i loro problemi. Lo hanno fatto talmente bene, certifica palazzo Madama, da «lasciare poco spazio alla speculazione» durante una ricostruzione che può essere considerata «celere ed esemplare» tanto che fu indicata «come modello per altri casi di eventi sismici». Peccato, ma questa è tutta un’altra storia, che il modello, in questo Paese, sia rimasto soltanto sulla carta.

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