Tondo: «Ho pagato per le riforme non concluse»

Parla l’ex presidente della Regione. «Forza Italia deve ripartire dal territorio»

UDINE. Renzo Tondo non è sparito e non ha nessuna intenzione di farlo. A quattro mesi dalla sconfitta alle regionali, il presidente uscente e candidato della coalizione di centrodestra, rompe il silenzio. Un silenzio imposto «dalla serietà, chi perde ha poco da parlare, ma questo non vuol dire che non sono della partita».

Partiamo da aprile, dalle elezioni perse per meno di 2 mila voti. Cosa non ha funzionato?

«Quando su dieci elettori due votano Serracchiani, due Tondo, uno Grillo e gli altri cinque stanno a casa, direi che si tratta di elezioni totalmente anomale anche se si vince o si perde per un solo voto».

Ma se quei cinque stanno a casa un motivo ci sarà?

«Mi limito a dire che chi ha governato negli anni di questa grande crisi è stato, praticamente, sempre sconfitto. Se poi penso al sindaco di Roma che si è fatto staccare di quasi il 30% da uno sfidante meno conosciuto e meno supportato dal suo partito di quanto lo era Debora Serracchiani, allora devo dire che la mia sconfitta ha proporzioni ben diverse. Certo, il rammarico è grande e riguarda principalmente il non essere andato fino in fondo sul tema delle riforme da me tracciato a fine 2011».

Forse la sua è stata una campagna elettorale poco incisiva?

«In campagna elettorale ho ritenuto, ammesso che sia una colpa, di onorare fino all’ultimo il mio impegno di presidente, dedicando anima e corpo alla gestione dei problemi della Regione. In tal modo ho concesso parecchio agli sfidanti in termini di freschezza ed energie. Ma un vero friulano non è opportunista, un vero carnico ancora meno».

Allora altri non l’hanno supportata?

«Io le responsabilità sono abituato a prendermele e non è mio costume scaricarle su altri. Ma per aderire alla sua domanda osservo che, aldilà dei vari episodi succedutisi nel quinquennio, la campagna elettorale è stata oggettivamente poco sentita da parte di qualcuno. Avevo dato la mia disponibilità a essere ovunque, pur tenendo conto di quanto appena detto: non sempre è stata colta. Diciamo che in alcuni territori si è fatta molta attività, in altri gli eventi organizzati dai referenti locali sono stati vistosamente pochi. E le disomogeneità di affluenza e performance, in effetti, si sono viste».

Perché non c’è stato il recupero di Bandelli? Sarebbero bastati i voti di Un’altra Regione per essere confermato.

«I conti della serva a spoglio ultimato lasciano il tempo che trovano. Sarebbero bastati quelli che Andolina avrebbe sottratto a Serracchiani se la sua lista non fosse stata esclusa per una firma speciosamente mancante; sarebbero bastati quelli de La Destra se fossero state raccolte le firme a Trieste e Gorizia; sarebbero bastati quelli di qualche consigliere uscente non ricandidato; sarebbero bastati – sostiene più di qualcuno – quelli della tante schede annullate per imprecisioni nel segnalare le preferenze, nonostante la chiara intenzione di voto al centrodestra. E potrei andare avanti».

Il suo governo, come più volte lei ha ricordato, è stato quello del “fare”. Due i cavalli di battaglia: infrastrutture e riduzione del debito pubblico (la Corte dei conti, pochi giorni fa, ha riconosciuto la bontà della sua gestione in proposito). Eppure non è bastato. Non è bastata nemmeno la riduzione dei consiglieri regionali, da lei voluta. Non è stato capito?

«In tutta evidenza no. Ma il tempo è galantuomo – lo conferma il riconoscimento da lei citato dalla Corte dei conti – e i miei tempi non sono quelli di chi deve usare questa Regione per passare da una poltrona all’altra o da un giornale all’altro. Hic manebimus optime: io sarò qui anche tra uno, tre, cinque anni. Sono curioso di vedere se varrà la stessa cosa per tanti protagonisti della politica e della stampa di questa feroce campagna elettorale, durata in effetti almeno due anni. La verità viene sempre a galla e, dopo i poco responsabili toni da tragedia usati dal centrosinistra in campagna elettorale, vedo che si comincia a riconoscere – solo per fare degli esempi – che la Sanità è stata governata virtuosamente (ma non era allo sfascio?), che sulla gestione dei fondi europei non siamo messi male (ma non eravamo la peggiore delle Regioni?) che Mediocredito va ricapitalizzato (ma non pareva una bestemmia?)».

Può essere che il fasìn di bessôi della terza corsia le si sia ritorto contro?

«Può essere, ma chi è onesto intellettualmente basta faccia mente locale per ricordare che per me non si è mai trattato di “fasìn” ma di “partin”. Come in effetti lo sviluppo della vicenda sta dimostrando. Certo, se magari l’opposizione dell’epoca fosse stata meno avvelenata e pregiudiziale, la stampa più serena e meno scomposta in alcuni passaggi chiave, e alcuni protagonisti del romanzo meno attenti ai propri destini personali e più all’armonica realizzazione dell’opera...».

Chiudiamo il capitolo e torniamo ad oggi. A Tondo sui banchi dell’opposizione. Cosa c’è dietro la sua decisione di entrare nel Gruppo Misto?

«Le mie decisioni non hanno mai un “dietro”. Il cinismo non fa parte del mio bagaglio, né di uomo né di politico: sarà anche un limite, ma me ne onoro. Ho aderito al Gruppo Misto perché da leader della coalizione giunta a un niente dalla riconferma ho ritenuto che le varie anime di cui essa si compone – tra cui una lista civica che porta il mio nome e che ha espresso ben quattro consiglieri superando il 10% – siano maggiormente garantite da una collocazione super partes. Senza pregiudizi sul passato, né precondizioni per il futuro. E a giudicare dalle rapide evoluzioni che il Pdl ha subito e subirà, direi che la mia scelta è stata anticipatoria e di garanzia per tutti».

Aderirà a Forza Italia 2.0 e pensa sia il “contenitore” giusto per un nuovo centrodestra?

«Sono domande premature rispetto a un progetto dai contorni ancora incerti e che resta legato alla sorte di Silvio Berlusconi. Parlare di Forza Italia 2.0 finchè resta una sigla priva di contenuti ha poco senso. In ogni caso mi piace ricordare quella che Berlusconi stesso ha messo nero su bianco qualche mese fa: “Renzo Tondo ha espresso delle opinioni che non hanno mai messo in discussione l’unità del nostro progetto politico. Opinioni rispettabili e dette con chiarezza, senza sotterfugi e le manovre trasversali di altri”. Sottolineo: senza sotterfugi e le manovre trasversali di altri. Resto pienamente della partita, ma ripartendo dal territorio e dalla prossima tornata amministrativa, in cui sarà determinante per convincere l’elettorato un rapporto virtuoso tra soggetti di centrodestra e liste civiche».

Come dire: bene Berlusconi, ma da solo non basta più?

«A prescindere dalla denominazione, questo è un partito che ha vissuto su Berlusconi, ma se il Berlusconi di oggi da un lato ha ancora più determinazione di quello di cinque anni fa, dall’altro lo scenario politico è talmente cambiato che nessun tentativo di rigenerazione che non parta dal territorio potrà dare risposte strutturali alla voglia di politica e partecipazione del popolo dei moderati, che comunque sia continua a guardare alla storia politica di Berlusconi come a un riferimento imprescindibile. Insomma, ripartiamo dal basso con umiltà e ascolto: dagli amministratori locali che si sacrificano, agli iscritti e simpatizzanti da rimotivare, ai giovanissimi, che non possono trovare risposte solo nel voto di protesta, nel non voto o in una sinistra sempre più di maniera nelle sue parole d’ordine».

Niente imposizioni dall’alto tipo Bernabò Bocca?

«Esatto. Se le candidature nazionali fossero state fatte con un occhio di riguardo al territorio, quelle poche migliaia di voti che ci separavano dal Pd – che ha vinto senza vincere – non ci sarebbero state e oggi scriveremmo una storia diversa».

La “luce in fondo al tunnel” che alcuni ministri vedono è effettiva? Riguarda anche il Fvg?

«Lo spread che scende mi impressiona molto poco. La luce sarà reale quando gli indicatori di disoccupazione cominceranno a scendere stabilmente. Il lavoro era e resta la prima delle emergenze. E vedo che il governo nazionale sta facendo sua la “staffetta generazionale” da noi sperimentata negli scorsi anni e che avevamo riproposto rafforzata nel programma elettorale. L’opposizione ironizzava, ricordo».

Che giudizio dà degli interventi della Serracchiani sui costi della politica?

«Pessimo per quanto riguarda l’aumento dei costi della giunta, con gli assessori esterni e tutto ciò che ne deriva. Sul consiglio, invece, l’intervento c’è oggettivamente stato, ma ha visto molto più protagonista il consiglio regionale nella sua autonomia che non la presidente. Così com’è avvenuto negli interventi anticrisi, rispetto ai quali il contributo dell’opposizione si è rivelato determinante».

Serracchiani a Roma sembra trovare molte più porte aperte di quante ne ha trovate lei: che idea si è fatto?

«C’è un piccolo particolare da precisare: chi bussa oggi a Roma lo fa a un indirizzo diverso da quello a cui ero costretto a bussare io. Sono cambiati gli inquilini. Mentre prima c’erano i professori del governo tecnico chiusi nella loro insensibilità spesso anche sprezzante (gli esodati o chi ha visto deprezzata la propria casa grazie all’Imu se lo ricordano bene, tanto per fare due esempi), ora c’è un Governo di unità nazionale che va da sinistra a destra e che cerca, per necessità, di dare ascolto a tutti. Un governo di cui, tra l’altro, fanno parte autorevoli esponenti degli enti locali. Chiunque fosse oggi presidente della Regione avrebbe porte aperte. Glielo garantisco. Detto questo, al momento vedo tante promesse, ottimamente vendute sui media. Spero ovviamente che si concretizzino per il bene della Regione. Ma sono ancora tutte sulla carta. E non vorrei che dopo le elezioni d’autunno in Germania il governo italiano torni a essere inflessibile».

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