Torna dalla Svizzera in Friuli ma alla pensione preferisce la coltivazione di olivello spinoso

Rientra in Friuli dalla Svizzera: che cosa fa? Non si ferma a godersi la meritata pensione. Non è assolutamente un tipo da inquadrare tra gli Umarells di paese, con riferimento al bestseller dell’antropologo urbano Danilo Masotti che racconta l’abitudine di tanti anziani, con le mani dietro alla schiena, intenti a guardare i lavori in corso nei cantieri. Non è neanche uomo da bar, che si ritrova con gli amici per giocare a briscola. No, quei passatempi non fanno per Denis Marangone, che ha trascorso una vita da emigrante senza un giorno di assenza dal lavoro. Partì per Basilea, ancora quattordicenne, da Santa Maria di Sclaunicco, frazione del comune di Lestizza, nella bassa pianura friulana.
Con la madre raggiunse il padre lavoratore giramondo tra Francia, Germania, Argentina in cerca di fortuna: finalmente si fermò in Svizzera e chiamò a sé moglie e figlio. Anche Denis si adattò a fare un po’ di tutto, dopo aver ultimato il periodo di apprendistato. Si fece le ossa sotto padrone in un’officina per poi aprire una piccola concessionaria della Fiat / Lancia. Quando i genitori rientrarono nel paese natio, lui si spostò in Ticino, dove a Locarno avviò un’altra attività legata al settore dell’auto. Si fece apprezzare come consulente investigativo per risolvere i casi più complicati di truffe automobilistiche nei confronti delle assicurazioni. Fiuto da Sherlock Holmes. Scovava vari tipi di trucchetti. Inventò persino un particolare microscopio per rilevare i danni effettivi causati dalla grandine. Ma poi, stanco di motori, si specializzò nel settore immobiliare dedicandosi soprattutto al risparmio energetico delle abitazioni. La sua predisposizione alle innovazioni lo aiutava a trovare soluzioni per ogni tipo di problema.
L’investimento in agricoltura.
Dopo 55 anni intensi di lavoro, Denis Marangone ha deciso di rientrare nella sua Santa Maria di Sclaunicco. Si è messo subito all’opera per ristrutturare la casa di famiglia, applicando le tecniche più innovative di riscaldamento e di isolamento termico imparate in Svizzera. Esaurito un progetto, ne intraprendeva un altro. Eccoci quindi all’agricoltura. Era alla ricerca di capire come investire proficuamente qualche capitale nella campagna, senza scadere però nelle coltivazioni tradizionali: «Era impensabile che io mi piegassi alle logiche di mais o soia. Volevo rompere la monotonia con alternative valide». Ricorda il salto sul divano, quando la compagna Delia gli parlò di una pianta che avrebbe fatto al caso suo e che gli avrebbe potuto dare delle soddisfazioni anche in termini di resa.
Così hanno visto e rivisto assieme un documentario per cogliere le potenzialità della nuova “creatura”. Per i neofiti di botanica è roba da Wikipedia per capirci qualcosa. Che cos’è l’olivello? È un arbusto con rami spinosi, che produce bacche di colore intenso giallo-arancione. Attenzione, perché bisogna mescolare bene le piante maschili con quelle femminili (nella misura di otto a uno a favore di queste ultime) per ottenere i frutti, grazie all’impollinazione tramite il vento. Un equilibrio da rispettare, dopodiché il gioco è fatto, perché la pianta è molto generosa, robusta e poco esigente. Non soffre né freddo né siccità. Marangone era rimasto folgorato dall’esplosione stagionale di bacche: «Una quantità enorme, bella anche a vedersi. Metteva allegria, sprigionando positività di pensiero».
A rafforzare la scelta dell’investimento sono stati gli studi sull’impiego dei piccoli frutti in vari settori: alimentare, fitoterapico e cosmetico. «Dentro quelle bacche c’è tutto un bendidio, in particolare – spiega divertito – una ricchezza enorme di vitamina C, la cui concentrazione è molto più importante di quella, già alta, contenuta nelle arance. Inoltre, sono rilevanti le proprietà antiossidanti e rigeneranti. Guardi che dell’olivello spinoso non si scarta proprio niente, vale quanto si dice per il maiale. Si può utilizzare tutto: polpa, semi, buccia e, addirittura, con i rami si può fare pellet per riscaldamento». E i prodotti si basano ormai su fantasia e innovazione: confetture, succhi, liquori, creme per pasticceria e cosmetica, sciroppi farmaceutici, tisane, olio, frutta secca, caramelle, integratori di vitamine in pastiglie. È possibile fare anche la birra: «Sul mercato ci sono almeno un centinaio di prodotti, uno diverso dall’altro. Ebbene, io arriverò lì nel giro di poco tempo, cioè quando le coltivazioni entreranno tutte a regime. Intanto mi accontento delle prime novità, tra l’altro ho persino fatto il gelato».
L’impero dell’olivello.
Le meticolose indagini sulle potenzialità della pianta hanno portato alla definizione di un vero e proprio progetto, con tanto di business plan. Gli occhi rapidissimi di Denis Marangone si posano su alcuni foglietti con un po’ di cifre: «La resa è elevata, all’incirca 15 mila euro / ettaro per ogni raccolta, che avviene ogni due anni perché l’operazione è particolarmente complessa. Infatti, è necessario tagliare i rami, i quali hanno poi bisogno di un po’ di tempo per fruttificare di nuovo. Le piante garantiscono però la produzione per almeno trent’anni. L’impianto iniziale costa attorno ai 12 mila euro all’ettaro. Ovviamente bisogna metterci dedizione e lavoro. Capisce però che il gioco vale la candela».
Marangone non ha perso tempo. Dopo alcuni test positivi sui terreni, a Lestizza, è partito con quattro ettari, che sono entrati nel patrimonio della sua azienda 3 Eco-Agri. «Ho messo così a dimora più di ottomila piantine – spiega – che ho comprato in Romania, un Paese che con la Germania è all’avanguardia in questo tipo di coltivazioni. Occhio alla Cina che fa numeri impressionanti». Non contento del suo autoconvincimento, ha trascinato l’intera famiglia della missione imprenditoriale. Contagiandola. Il figlio Mattia, trentaseienne, laureato in ingegneria elettronica, ha lasciato il Ticino, con la compagna Sandra Gfeller, per imbarcarsi nella nuova avventura. Ha potuto contare sui finanziamenti europei del Programma Sviluppo Rurale destinati ai giovani. Così, insieme, hanno fondato la Olispin, che conta già su un’altra trentina di ettari (all’incirca 2.200 piante per ettaro) tra Lestizza e Grado. L’obiettivo è di superare rapidamente la soglia dei quaranta.
Nonostante la divisione di quote e compiti, il padre resta il “gran patron” dell’intera operazione. Soltanto la figlia Monica, quarantenne, è rimasta in Svizzera. «Che vuole farci! Mio padre ha una grande capacità di motivare. E’ un leader carismatico. In fin dei conti – commenta Mattia, stringendo le spalle del papà – io ho sempre avuto la passione del verde. Ora ho la possibilità di coronarla». Il salto dalla Svizzera all’Italia non è stato traumatico: «Per carità, qui ci sono sempre tante carte da firmare. Ma in Italia la situazione non è poi così tragica, come invece si vuole dipingere. Superato il primo impatto, tutto funziona. In Svizzera c’è meno burocrazia, ma per gli alti costi non avremmo mai potuto intraprendere un’operazione simile». Ora l’impresa è work in progress. L’obiettivo è di gestire in proprio tutta la filiera, compreso il ramo della trasformazione. Sono stati fatti investimenti su attrezzature moderne per ridurre al massimo l’attività manuale. Per il momento resta fuori soltanto la lavorazione delle bacche, affidata a una ditta di Chiasiellis, vicino a Mortegliano, che adatta all’olivello i macchinari usati per la pressatura delle mele. «Ma arriveremo anche lì», sostiene convinto Mattia, spiegando che, proprio recentemente, è entrato in funzione l’impianto di essiccazione delle bucce per ricavarne tisane.
Un arbusto che esisteva in Friuli.
L’olivello spinoso non è una novità per le nostre terre. Per esempio, la pianta cresceva spontanea lungo il greto del Tagliamento, con funzioni particolarmente importanti per la difesa degli argini, in virtù delle sue radici assai profonde, resistenti e intrecciate: «È un arbusto che potrebbe interessare il consolidamento del terreno nelle zone franose». A fine estate, negli anni del boom, le sponde dei fiumi diventavano delle gradevoli tavolozze di colori giallo e arancione, che facevano risaltare la loro vivacità sul verde delle foglie.
Ancora oggi ci sono delle macchie di vegetazione sparse qua e là, ma è rimasta poca roba. Il Friuli ha dimenticato le sue “creature”. Le ricerche di Marangone sui tempi ormai lontani portano soprattutto a Bordano, dove l’attività di raccolta rimase intensa almeno fino agli anni del Dopoguerra: nelle testimonianze, è ancora citato “il timp de sbite” (il tempo dell’olivello), quando le donne raccoglievano le bacche aiutandosi con le forchette per raschiarle dai rami piegati per l’abbondanza dei frutti. Era per loro un regalo della provvidenza, la cui vendita (anche in Germania e Austria) aiutava a integrare il reddito familiare. Ogni paese dell’Alto Friuli attribuiva un nome diverso alla pianta. Poi più nulla, ma oggi sta rinascendo qualcosa anche in Carnia. D’altra parte, nelle campagne si stanno risvegliando idee di innovazione con il recupero di semi antichi, di coltivazioni dimenticate, di tecniche trascurate alzando così il livello di resistenza all’abbandono. La terra è vita. L’obiettivo è la ricerca meticolosa della qualità della produzione, in grado di contrastare l’agricoltura di tipo intensivo, prigioniera di logiche speculative. Magari si accettano rese e ricavi più bassi. La passione dei “nuovi contadini” sta cambiando la vita nei campi.
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