Tra i fantasmi buoni che vivono sui monti

Nicolò Giraldi coglie il senso delle sue avventure in quota

Ti ricordi mai le cose che dimentichi? Nonostante la retorica della domanda potrei farlo. Riuscirei a farlo se, e solo se, avessi osservato il digiuno dalla perfidia e dalle prese in giro. Sarei capace di godere di quella memoria se le promesse personali non risultassero vaghe. Sinceramente non ricordo quando ho perso il passato. Quello che so è riferito alle orme delle transumanze dimenticate, quelle sepolture approssimative e chissà perché, lasciate morire. Ricordo che partivano per Sant’Antonio e che rientravano nelle loro stalle a settembre. C’erano i pastorelli, le capre, la fatica; la cjaldiera era grande a sufficienza per contenere la smania del profitto di quelli che credevano al progresso. La ricotta sprigionava il profumo dei piaceri sempre nuovi, resi tali dall’amore e da nient’altro. Esisteva eccome, questo mondo. Poi, un giorno cessò di esistere. Oggi nessuno ricorda per quali ragioni. Sparì, dimenticato, evaporato.


Tempo dopo capii che sarei dovuto andare alla ricerca di questi fantasmi buoni. Mi era stato detto che vivevano ancora, tra i pascoli di una montagna chiamata Carnia, o la Giulia al plurale, o ancora qualcuno mi consigliò il Cansiglio. Dovevo trovarli di nuovo, sentivo il bisogno di chiedere cos’era successo e perché non avevano provato a resistere, magari iniziando da capo. Trovai una vecchia mappa dove erano segnate tutte le malghe e il modo per raggiungerle. In alcu

ni casi una piccola didascalia proponeva la stagione migliore, quella meno stizzosa, la più indulgente.
Partii il 13 giugno, esattamente come avrebbero fatto i malghesi. Preparando lo zaino, che non svuoto quasi mai, riconobbi il desiderio di sorridere, di farlo proprio grazie a loro.


Salii verso i giganti, in un maldestro tentativo di rimetterli in piedi, nonostante quel dipinto mantovano di Giulio Romano, che aveva messo in guardia anche le bestie. Ho sentito le lamentele e l’acustica delle fiabe, le liriche strabordanti di sciroppo di sambuco e la subdola avventura di gabellieri affumicati dalle nuvole delle fabbriche. Un tempo, vicino alla vocazione ci si metteva il sentimento. «Se non hai la passione non vai da nessuna parte» ripetevano i giganti, stretti attorno ai tronchi dei faggi maturi messi ad ardere. Li trovai lì, dopo qualche giorno. Continuavano a recitare litanie popolari, tra bestemmie inquisitorie e formaggi senza vermi, scarpe rotte senza andare da nessuna parte. Qualche capello bianco rimaneva fermo nelle sue decisioni mentre la giovinezza dettava le sue curve poco equilibrate, eppure curiose. «Sono anni che ci prendono in giro, che ci sfruttano», urlavano le voci metalliche ed infuriate dei piccoli giganti. «Non servirà a nulla impugnare i forconi», ripetevano i saggi.

Le donne, in questo mondo erano depositarie dell’ ultima parola: spettava a loro decidere quale sentiero seguire.
Ogni passo assumeva i contorni di un’epifania continua. Esistevano formaggi che avevo già assaggiato, altri appena preparati. Salite lunghe chilometri e torrenti asciutti, senz’acqua e senza ritmo. I larici sbandavano in ragione delle correnti ventose. «Arriveranno forestieri, imporranno la loro lingua», ripetevano le imberbi guarnigioni di malghesi. I vecchi tentavano di arginare i sintomi della rivolta.

Gli uomini senza bussola avrebbero voluto stravolgere la cronologia, il bacio della buonanotte e il caffè scuro; il “progresso” applicato alle montagne era l’unica formula che conoscevano e così facendo influenzavano inevitabilmente gli spiriti di chi aveva fatto le cose sempre alla stessa maniera. Mi ritrovai a discutere della passione, di quel mantra liturgico impossibile da scansare, alla stregua di una medicina da issare ogni qualvolta si ripresentasse il dubbio su come comportarsi. Menzionavano l’arroganza di quegli affaristi disposti a tutto pur di corrompere i giganti. Raccontavano di quando i miserabili tentarono di cambiare i toponimi, i nomi degli attrezzi, la conclusione delle favole.


Ogni tanto sui pascoli arrivava qualche malghese nuovo. Si era fatto cacciare – volutamente – dal mondo delle valli e delle pianure, ed era salito fin sopra la nebbia per riprendere a guardare la Terra dall’alto, la metafora dell’unico scalpello in grado di ridare forma al granito. La gioia si manifestava nell’affetto degli occhi verso l’aquila reale, la coturnice o la cincia mora, la lince e l’orso, il cervo e i camosci. Un giorno giunsi davanti ad una malga chiamata Lavareit. Trovai una vecchia pentola in ghisa e dell’acqua in ebollizione: “bolle da almeno cinquant’anni” mi disse il malgaro. Era un sopravvissuto. Resisteva ancora perché non permetteva a nessuno di avvicinarsi al pentolone. O meglio, chiedeva semplicemente se il forestiero fosse in grado di riconoscere l’onestà del latte: avesse scosso la testa da destra a sinistra, la conversazione si sarebbe arenata lì. Al contrario, l’avrebbe reso partecipe di un mondo lineare, diffidente ma affettuoso, instabile eppure bisognoso di protezione. Scesi a valle e recuperai la gratitudine. Cercai di trascriverla così da congelarla. Il suono di un campanaccio mi fece sobbalzare. Aprii gli occhi e capii che era giunto il momento di scegliere da che parte stare, il momento di partire per una rivoluzione giusta. A nord, lassù tra i giganti delle malghe.
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