Uccise Silvia, ora dice: «Mi vergogno, datemi la pena massima»

Il ritratto di Nicola Garbino nell’analisi dello psichiatra Andreoli: si sentiva un fallito. E aveva un rapporto patologico con la madre che ogni sera controllava il portafoglio dei figli, a loro insaputa, per conoscerne lo stile di vita. Aveva in mente anche la cifra del riscatto: 50 mila euro
Udine 17 Settembre 2013. Omicidio giovane avvovato a Plaino. Telefoto Copyright Agenzia Foto Petrussi / Petrussi Diego
Udine 17 Settembre 2013. Omicidio giovane avvovato a Plaino. Telefoto Copyright Agenzia Foto Petrussi / Petrussi Diego

UDINE. In famiglia lo consideravano un «fallito» e lui stesso, per descriversi, si è definito «uno sfigato». Un uomo che, arrivato all’età di 36 anni, non si era ancora laureato e non aveva neppure trovato un’occupazione, non aveva un solo amico e tantomeno una fidanzata.

Se queste sono le premesse, non stupisce che Nicola Garbino, a processo davanti al gup del tribunale di Trieste per l’omicidio di Silvia Gobbato, abbia raccontato di avere deciso di rapire una persona e di chiederne l’immediato riscatto, per potersi presentare ai parenti, al matrimonio di una cugina in programma di lì a quattro giorni, sotto una luce finalmente nuova: quella di chi ha i soldi per completare gli studi, cominciare a lavorare come ingegnere meccanico e andare a vivere da solo.

Per riscattarsi, insomma, dalle tante umiliazioni subite fino a quel momento. Ora che tutto è finito e che l’unico risultato ottenuto è stata l’assurda morte di un’innocente, però, a chiedere una punizione esemplare per quel che ha fatto è lui per primo.

L’analisi dello psichiatra

A tracciare il ritratto dell’assassino della praticante legale di San Michele al Tagliamento, uccisa il 17 settembre 2013, a 28 anni, mentre faceva jogging lungo l’ippovia del Cormôr, è stato il professor Vittorino Andreoli, nella relazione psichiatrica di cui era stato incaricato dalla Procura.

L’esame era approdato alla triplice conclusione che Garbino fosse «capace di intendere e di volere» al momento dell’azione delittuosa, che sia «in pieno possesso delle capacità mentali» per partecipare coscientemente al procedimento e che debba essere considerato «persona fortemente pericolosa».

La cornice familiare

A casa, Nicola viveva «in una sorta di clausura». L’analisi del professor Andreoli parte dal contesto familiare, di cui fanno parte la madre, casalinga, il padre, pensionato, e il fratello maggiore, dipendente di un supermercato. «Negli 8 mesi che precedono il delitto - scrive il consulente - non si incontravano nemmeno a tavola. Tutto si era ridotto a una fuga dalla famiglia.

La madre è la regina del gruppo: ogni sera controllava il portafoglio dei figli, a loro insaputa, per conoscerne lo stile di vita. Nicola rifiutava sistematicamente il denaro di famiglia, per non incorrere nel giudizio materno che sottolineava la sua incapacità di combinare qualcosa di serio e l’essere un perditempo».

Rimprovero che Nicola riteneva comunque giustificato, avendo dato l’ultimo esame - era iscritto a Ingegneria, a Trieste, e gliene mancavano 5 - il 21 settembre 2007 e non pagando più le tasse dal 2011-12. A chiedergli dei suoi studi e accrescere così l’imbarazzo erano anche cugini e zii.

Il piano del sequestro

La mattina del 17 settembre uscì di casa per realizzare un progetto in cantiere dal 2011, quando aveva dovuto rinunciare a sostenere l’esame di Elettronica perchè non era in regola con le tasse. «Da allora - scrive Andreoli - aveva elaborato con tenacia un piano che gli avrebbe permesso di ottenere denaro».

L’accelerata era stata determinata dal matrimonio della cugina: voleva evitare di presentarsi di nuovo come «un parassita e un fallito». Con i soldi ottenuti dal riscatto, sarebbe veramente andato a Padova e si sarebbe iscritto a una nuova università.

«Era l’ultima occasione - ha affermato lo stesso Garbino -: o adesso o mai più». Per farlo, gli era parso che l’unica via fosse quella di un rapimento. Aveva in mente anche la cifra del riscatto: 50 mila euro. «Ogni famiglia è in grado di racimolarli - aveva spiegato in carcere allo psichiatra -. Anche la mia potrebbe farlo».

L’agguato al Cormôr

La preda avrebbe dovuto essere «sola, mingherlina, lenta e donna». Garbino aveva studiato tutto a puntino: dai travestimenti, alla scatola di alluminio in cui riporre il cellulare dell’ostaggio per evitare intercettazioni. Sempre attento a non farsi scoprire. L’unica cosa che non aveva previsto era una reazione di Silvia. Il piano fallisce e lui risponde ammazzandola e «realizzando così - ipotizza Andreoli - una vendetta contro la ragazza che non si era lasciata sequestrare e contro il mondo».

La mattina successiva, a colazione, chiede alla madre di poterle parlare. «Ma poi - scrive il consulente - riesce solo a dirle che ha deciso di interrompere l’università e di volersi cercare un lavoro». Quando, due giorni dopo, i carabinieri gli chiederanno di aprire lo zaino nel quale aveva appena riposto tuta e coltello ancora sporchi di sangue, non gli rimarrà altro che confessare.

Il rapporto con la madre

Nel ripercorrere con lo psichiatra le fasi della propria vita, Garbino ha ricordato alcuni atti di autolesionismo grave. Il primo, quando aveva appena 16 anni e al quale era seguito il consiglio dei medici di farlo aiutare da qualche specialista. Strada che - osserva Andreoli - la madre decise di non imboccare, negando che i fatti fossero andati in quella maniera e parlando invece di episodi accidentali.

Uno degli elementi che, secondo il consulente, hanno fortemente condizionato la crescita di Nicola è stata proprio la «dipendenza dalla madre». Il loro è un legame «di tipo patologico, in quanto “castrante”: colpisce prima - scrive - e poi abbraccia il figlio crollato a terra.

Una sorta di sfinge a cui è attaccato anche se non vorrebbe In un rapporto fatto di silenzi». A connotare negativamente la sua esistenza sono anche «una sessualità inibita e di tipo adolescenziale» e un’alternanza tra «senso di persecuzione», «depressione narcisistica» e «ossessività».

Ecco perchè vivo male

È lo stesso Nicola a enumerare allo psichiatra i propri problemi. «Il principale - gli dice - è di non riuscire a entrare in confidenza con la gente: mi è innaturale esprimere i miei pensieri più intimi. Il secondo, di non chiedere mai aiuto. Il terzo è il mio corpo: si è sviluppato in ritardo e questo mi ha sottoposto a derisioni.

Il quarto sono i soldi, il quinto è il bisogno di passare 3-4 ore da solo senza pensieri, il sesto è il non avere mai seriamente cercato una ragazza. In ultima analisi - concludeva - il mio problema principale è la mia completa solitudine, aggravata dall’insorgere periodico di profonda tristezza».

Il pentimento

A contare, nella valutazione clinica, sono anche le lettere scritte in cella. In quella a genitori e fratello, li ringrazia di essergli rimasti vicini, nonostante ciò che ha fatto. «È una cosa che non dimenticherò mai - scrive Nicola - e per la quale vi vorrò sempre bene. Non riesco a immaginare tutta la vergogna che vi ho dato. Io stesso mi disprezzo moltissimo».

Con i familiari di Silvia Gobbato riconosce di avere ucciso brutalmente «una persona innocente». «Il rimorso - scrive - riempie le mie giornate. È successo perchè ho seguito caparbiamente le mie malsane idee. Non riesco a parlare di perdono, perchè credo tali parole siano veri insulti verso di voi. Mi vergogno di me stesso e non potendo più fare niente per rimediare, posso solo chiedere alla giustizia di darmi il massimo della pena».

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