Udine capitale? È una diatriba che dura da secoli

Non è mai riuscita a rappresentare il cuore del Friuli. Neppure nella lingua. Eccezion fatta per il terremoto
Udine 28 Agosto 2011. Genius Loci. Soffitta, specola ed orologio del Castello. Telefoto Copyright Foto PFP / Petrussi
Udine 28 Agosto 2011. Genius Loci. Soffitta, specola ed orologio del Castello. Telefoto Copyright Foto PFP / Petrussi

Udine e il Friuli, quanto si amano, quanto si capiscono? Quanto l’una si sente capitale dell’altro e l’altro la accetta come capitale? Eterno problema, nodo aggrovigliato, come discutere sul sesso degli angeli. Il tema si agita da sempre nel nostro subconscio e poi esplode sotto elezioni appena il mondo politico, sociale e culturale entra in fibrillazione. Succede sempre, inevitabilmente, e torna a ripetersi anche stavolta.

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Il sasso lo ha lanciato la Filologica friulana durante l’assemblea di domenica e a finire nel mirino è stata l’amministrazione uscente di Udine, guidata da Furio Honsell. Chi fa parte di tale schieramento (dall’assessore regionale a quello comunale) cerca di parare il colpo e replica. I concorrenti nelle imminenti consultazioni condividono le critiche e le amplificano ritenendo che Udine come capitale abbia fallito.

Insomma, il solito gioco delle parti, ben sapendo che nell’animo di ogni friulano, qualsiasi partito poi voti, sonnecchia un naturale sentimento di ribellione e protesta, ereditato dal passato e mai spento. Lo scrittore Carlo Sgorlon diceva che il friulano, in genere, sa per ragioni ataviche che niente di buono viene dal potere, ma in questo caso il potere non è rappresentato da Roma o Trieste, bensì dalla città che invece, come si legge nell’articolo 1 dello statuto comunale, si autodefinisce “capitale del Friuli storico”. Allora, come stanno le cose?

Stanno che da secoli è così. Basta rileggere quanto è stato scritto al riguardo, tanto che esiste quasi un filone letterario su tale tema, per cercare di dimostrare come Udine, pur essendo divenuta centro amministrativo del Patriarcato di Aquileia, non sia mai riuscita a rappresentarne il cuore spirituale.

E che anzi nella sua volontà di interpretare il ruolo di capitale abbia preferito “venetizzarsi” (come si nota pure nel suo volto architettonico) piuttosto che “friulanizzarsi”, rifiutando una vera dialettica con il cosiddetto “contado”. Se lì si predicava e catechizzava in marilenghe, in città era più vezzoso parlare in dialetto veneto. Si dirà: questo accadeva secoli fa! Certo, ma in tali questioni non è che il tempo attenui le diversità, anzi può renderle più complicate.

C’è una strada udinese che simbolicamente rende in maniera plastica la difficoltà di dialogo e il rapporto di reciproca diffidenza. Si tratta di via Canciani, il cui antico toponimo (come si legge su una tabella) era “Spelevilan”: li si affacciavano le botteghe di mercanti e artigiani che aspettavano al varco i contadini arrivati per vendere i prodotti cercando di carpire loro i soldini del guadagno, in modo del tutto lecito, ma abbagliandogli con moine e mercanzie.

Un altro caso, tra i tanti da poter citare, è quello riguardante il grande Beato Bertrando, il patriarca più amato, colui che ebbe intuizioni geniali per la Patria del Friuli, e che fu ucciso a 90 anni suonati da una congiura di nobili che non accettavano la sua gestione amministrativa. Il religioso, di origini francesi, prese le parti di Udine in una contesa che aprì una guerra sanguinosa con Cividale.

Questo è il passato. I rimasugli di un clima così incandescente non furono poi estirpati del tutto, come confermò la politica di inizio Novecento, quando il leader indiscusso di Udine era l’onorevole Giuseppe Girardini, anticlericale e radicale, mentre il contado aveva altri sentimenti, più cattolici.

Ne esce, rileggendo questa letteratura, una serie infinita di rapporti tesi e difficili, quasi di dialogo tra sordi e tra mondi che stentano a capirsi. Eppure Udine si sente capitale di tutto ciò, anzi del Friuli storico, che dovrebbe includere anche Pordenone e Gorizia, ma in tale caso con problemi ancora più profondi perché le tre città non sono mai riuscite a fare sistema. Per mettere d’accordo tutti pare davvero necessaria una personalità forte, all’altezza, in grado di compattare i territori, svolgendo un compito che spettava un tempo ai partiti più che ai singoli leader.

Tra i problemi creati da tale situazione, ne indichiamo uno. Basta pensare all’accerchiamento che Udine, emporio storico e naturale, ha subìto in una ventina d’anni dai grossi centri commerciali costruiti grazie a varianti urbanistiche nei Comuni dell’hinterland, senza che vi siano state una collaborazione e una gestione condivisa del territorio. Già nel 2004 la commissione dell’Ordine degli ingegneri, guidata da Roberto Gentilli, lanciò l’allarme al riguardo, trovando indifferenza e silenzio nel mondo politico.

Rispetto a tutto questo, va segnalato un ricordo: l’unica fase in cui Udine svolse fino in fondo il suo compito, diventando centro nevralgico della regione e dunque capitale del Friuli, fu quella degli anni Ottanta dopo il terremoto e durante la ricostruzione.

Capitale nel vero senso della parola, perché la politica e l’economia trovarono qui la sintesi sul piano decisionale. Ma anche allora non mancarono i mali di pancia, in tale caso dei triestini che temevano la concorrenza udinese in termini di potere e prestigio. In seguito ci fu ancora una ventata a fine anni Novanta poiché i segnali di una primavera autonomista coinvolsero stranamente la città.

Udine alle volte sa pure sorprendere, come accadde nel 1945 quando un gruppo di giovani intellettuali (da D’Aronco a Pasolini) si strinse attorno a Tiziano Tessitori, avvocato di origini sedeglianesi, per fondare l’associazione che chiedeva la Regione autonoma del Friuli. Senza quell’intuizione la nostra storia sarebbe stata diversa e peggiore. Ci vorrebbe qualcosa di analogo al giorno d’oggi per fare di una città colta, civile e originale una capitale a tutti gli effetti. Non per prevaricare, ma per progredire.

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