Udine, l’albergo dei disperati nei capannoni ex Safau

I rifugi dei profughi in città. Cucina di fortuna, letti e divani in via Calatafimi, dove si usa l’acqua della roggia. Ricoveri attrezzati anche in via Sabbadini e vicino al cimitero di San Vito

UDINE. In via Calatafimi arrivano in tre, a piedi. Sono tutti giovanissimi: Asif (22 anni) e Said (23) sono pakistani, con loro Khan, afghano, 19 anni compiuti da poco. Hanno paura della polizia, servono alcuni minuti per convincerli a mostrarci dove vivono.

Said punta il dito verso la fine della strada, indica un capannone dell’ex acciaieria Safau mentre con l’altra mano trasporta un contenitore alimentare in alluminio. «Mangiare», ci spiega in un italiano arrangiato, aiutandosi con i gesti: è il pranzo di tutti e tre. Al termine della via si svolta a sinistra, si supera una sbarra, costeggiando la roggia di Udine.

Cinquanta metri ancora e si scavalca agevolmente un’inferriata prima di entrare in un’enorme capannone e imboccare una porticina: la prima stanza è la lavanderia, in una canaletta scorre l’acqua torbida della roggia, la usano per cucinare. Ci fanno accomodare al primo piano, salendo una scalinata in cemento, senza protezioni.

La cucina è un vecchio mobile con alcuni ripiani, a terra un fornelletto da campo, poco più in là un divano e vestiti stesi ad asciugare: è il salotto. Nonostante il rifugio sia a dir poco di fortuna non c’è disordine, qualcuno ha usato la scopa per rimuovere polvere e detriti. Si gira un angolo per accedere alla zona notte: uno stanzone con vista senza finestre su altri capannoni, ci sono letti, uno specchio, un altro divano.

«Siamo qui a Udine da due anni», spiega il più giovane dei tre. «Io ho ottenuto un permesso di 5 anni, lui per due, lui ha fatto ricorso dopo che gli hanno rifiutato la protezione. Siamo in regola, ecco i documenti, ma non c’è un posto dove dormire, giriamo tutto il giorno per trovare un letto nelle strutture convenzionate», riesce a spiegarsi a fatica Khan, alle spalle tre mesi alla Cavarzerani.



Said ha cercato lavoro a Bari, in nero: un mese da “schiavo”, il terrore del caporalato ancora negli occhi, il ritorno in Friuli. Ma anche qui c’è qualcuno che fa paura: «Polizia. Viene qui, ci dice di andare via subito, bisogna stare zitti, ci portano a qualche chilometro e ci lasciano per strada. E noi, come altri, torniamo a piedi. Non rubiamo, non droga: abbiamo solo paura».

Paura, seppur diversa, che ha lasciato da tempo spazio alla rassegnazione quella che invece emerge dalle parole di Claudio, titolare dell’ultima attività sopravvissuta nella zona: la A.Tavano & C. Srl, ditta specializzata in pavimenti in legno «dal 1934, quando la fondò mio padre Alfredo. Resisto, ma è difficile. Mi sento come il generale Custer circondato dagli indiani: furti, vetri e porte rotti sono un’abitudine, mi hanno portato via anche la stufa. Ho fatto staccare l’allarme, tanto è inutile.

Non so se sono sempre i migranti, ma ne vedo sempre di più, dormono là, nei capannoni. Un mese fa sono arrivato di mattina in ufficio, ho sentito dei rumori e ho trovato un uomo di colore, aveva addosso una mia maglietta. Non ho neanche fatto denuncia, l’ho invitato solo ad andarsene. È brutto non sentirsi sicuri in casa propria, ma ormai è così».

Il viaggio tra i rifugi dei disperati prosegue nell’ex frigorifero, in via Sabbadini. Una ventina di auto nel parcheggio, via vai di gente, ma basta aggirare una recinzione per trovarsi in un altro mondo: rifiuti, sporcizia, l’odore è nauseabondo. Si costeggia il nuovo museo friulano di storia naturale e sotto un porticato ancora materassi, sedie, un fornelletto: è la “residenza” di due migranti romeni. Non vogliono foto, niente nomi: «Dove volete che andiamo? Non abbiamo soldi, non si trova un posto per dormire, figurarsi un lavoro e quando farà freddo saranno guai. Lasciateci in pace. Andate all’ex caserma Piave, là ne trovate tanti».



Ci andiamo. L’ingresso principale, in via Catania, mostra solo una struttura in avanzato stato di degrado e cartelli del Comune che avvisano del pericolo di crollo. Nascosta nella boscaglia la solita scena: materassi, coperte, vestiti, scarpe.

Continuano intanto le segnalazioni e le lamentele dei cittadini per la situazione a ridosso del cimitero di San Vito. Il chiosco dell’ex fioreria non lascia spazio all’immaginazione: sotto la tettoia materassi, scarpe, un tavolo, piatti e bottiglie, anche due piccole tende da campeggio. A pochi metri una discarica a cielo aperto. Ma non c’è nessuno, il rifugio qui si popola «dopo il tramonto», ci racconta un passante scuotendo la testa. Poco distante l’oggetto di altre segnalazioni (e foto): una villetta in via Villa Glori, ancora in costruzione, i lavori sembrano bloccati da tempo. Nel giardino, a ridosso del portico, ancora vestiti e coperte: altri giacigli di fortuna.

Altre foto e le lamentele dei residenti ci portano all’ex hotel Villa Première, in via Barcis, chiuso da anni. Attraverso le cancellate si notano altri materassi, altre coperte: basta un tetto sotto cui ripararsi. Per qualcuno è già un lusso.
 

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