Un violino tzigano per i Bintars
UDINE. Alla fine è un orecchino ciò che associa friulani e zingari. Perché se è vero che tra i due soggetti i rapporti non sono mai stati idilliaci, anzi tuttaltro, dobbiamo pur registrare che quel cerchietto d’oro o d’argento ha accumunato nel costume, genti così diverse. La tradizione, infatti, prevedeva che quest’oggetto, caratteristico della cultura maschile gitana, fosse anche ornamento virile dei nostri primogeniti e successivamente segno distintivo dei “Bintars”. Un termine che si usa ancor oggi, ma di cui molti non conoscono il significato: deriva dal tedesco Winter, inverno, e stava a indicare quei nostri giovanotti emigrati nelle Germanie che spendevano, una volta rientrati in Friuli, nell’inverno appunto, quanto avevano guadagnato. Baruffanti e perdigiorno, lazzaroni, tanto che spesso per catalogarli, al posto del termine “bintar” si adoperava “zingar”.
Sottili distinzioni che si annullano, si rincorrono e si scontrano. Spiriti liberi entrambi, ma gli uni legati alla terra, alla casa, al "madon", gli altri nomadi, senza regole se non quelle ferree del clan. Ho sempre pensato che i friulani invidiassero agli zingari quella libertà d’azione, ma, non potendola esercitare, covassero nei loro confronti profonda avversione.
Anche questo farebbe parte della storia di popoli, anzi potrebbe essere la fonte di saghe e leggende, prosegui più nobili di quanto raccontavano mamme e nonne per farsi obbedire, chiamando in causa lo zingaro di turno che ci avrebbe portato via. Strana cosa anche la legalità: come in un gioco di specchi veniva spesso sostituito, come spauracchio, dal carabiniere.
A rovinare questo rapporto dialettico, quindi necessariamente contradditorio, sono stati i campi stanziali. Bisogna chiuderli, non perché lo dice Salvini e la destra, ma perché negano l’esistenza, l’anima stessa del popolo rom e di conseguenza la nostra possibilità d’incontro- scontro.
Serve un confronto tra culture che sono diverse, senza paternalismi e soprattutto senza maschere politicamente corrette. Negli anni passati Mansueto Levacovich sedette in consiglio comunale a Udine. Pochi se lo ricordano. Un grande esempio di civiltà senza dubbio, ma che non lasciò né segni né eredi. E ancor oggi in via Monte Sei Busi non si sente la musica dei violini tzigani.
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