Via i primari storici, l’ospedale di Pordenone ha perso peso e ora i nodi della sanità vengono al pettine

Tempo di scelte: il ruolo di succursale sta stretto a Pordenone. Il Cro alle prese con la crescente concorrenza dal Veneto
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PORDENONE. Sul cruscotto della sanità pordenonese è accesa una luce rossa. Segnala l’emergenza. Di questi tempi potrebbe rientrare nella normalità. Invece è un problema ormai cronico: la situazione è in sofferenza da tempo, un declino palpabile e pericoloso che ha indotto gli stessi operatori a scendere in piazza per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e coinvolgerla nella loro battaglia. Con poco successo.

La questione sanità viaggia su un piano inclinato da almeno vent’anni. Solo che adesso, complice la pandemia, sono venuti al pettine nodi da troppo tempo irrisolti. I numeri sono impietosi: una ventina di reparti senza guida (la mancata nomina dei primari è lo specchio più evidente di questa realtà), il settore infermieristico in difficoltà per la carenza degli organici, la ripartizione delle risorse regionali che vede da sempre Pordenone nel ruolo di cenerentola, la mancata sostituzione dei medici di base, la chiusura di reparti, la qualità della classe medica, il Centro di riferimento oncologico spesso sotto attacco da parte di fuoco amico. Per medici e infermieri, a contatto quotidiano con questa realtà, la soluzione più immediata è la fuga.

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«Chi può scappa», dicono all’unisono sia gli uni che gli altri. Sul banco degli imputati la politica. In particolare a Pordenone dove i rappresentanti, a tutti i livelli, non hanno mai saputo fare squadra, contrariamente a quanto accade a Udine. Sulla localizzazione del nuovo ospedale, ad esempio, si è sfiorata la rissa: una cortina fumogena nel tentativo forse di nascondere le carenze attuali. I muri, si sa, sono del tutto ininfluenti rispetto all’efficienza e alla qualità dei servizi.

Mentre i lavori per la nuova sede procedono spediti nessuno pare voglia affrontare il nocciolo duro della questione: quale sarà il progetto futuro? Diventerà una succursale di Udine (dove già si è costretti a bussare per la cardiochirurgia, per la neurologia chirurgica, per i pluritraumatizzati gravi, l’infettivologia, le terapie intensive da Covid) oppure si muoverà in totale autonomia? In questo caso quale risorse sono previste dato che gli investimenti dovranno essere consistenti sia nel personale che nelle attrezzature? Che ne sarà dei vecchi padiglioni? Considerato che i posti-letto scenderanno dagli attuali 550 a 480, almeno uno sarà attrezzato e disponibile in caso di emergenza?

Già prima del Covid, con i picchi influenzali, la pneumologia era costretta a dirottare i pazienti negli altri reparti. All’interno dell’ospedale il disagio per un organico ridotto all’osso è diventato routine. Subito dopo l’emergenza di primavera Udine e Trieste sono corse ai ripari coprendo buchi nel settore infermieristico. Pordenone è rimasta alla finestra. «Siamo in difficoltà – dice Luciano Clarizia, presidente provinciale dell’Ordine degli infermieri –. Infermieri non se ne trovano; il turnover è molto alto: anche quelli inquadrati appena possono scelgono altre destinazioni; la carenza riguarda anche gli infermieri specializzati».

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Una breccia potrebbe aprirsi alla fine di questo mese. Dall’università di Udine dovrebbero uscire 98 infermieri di cui una ventina residenti nel Pordenonese. «A questo punto – conclude Clarizia – speriamo nella semplificazione dei concorsi per non perdere un’altra occasione». La punta dell’iceberg è rappresentata però dai primari. Una ventina di posti scoperti, un’emergenza unica. In parte è dovuto alla complessità delle procedure, in parte alla lentezza in cui si muove l’Arcs (l’agenzia regionale centro servizi) delegata ai concorsi, in parte per scelte politiche. I direttori generali, per contratto, se presentano due bilanci consecutivi in rosso possono essere sostituiti e quello del 2019, firmato da Joseph Polimeni, era in perdita... Si respira, insomma, un’aria di scoramento. E la demotivazione è conseguente.

L’ospedale di Pordenone non ha più l’appeal di un tempo. Quando gli Zanuttini e i Nicolosi avevano proiettato la cardiologia nei reparti d’elite, così come è stato con Zilli nelle chirurgie, Barzan in otorino, quando cioè queste eccellenze fungevano da richiamo e ai concorsi si presentavano i medici più bravi e motivati. «Un tempo arrivavano di corsa, ora fuggono» è l’amaro commento di un primario. Il depauperamento è continuo. L’ospedale, fino a poco fa, garantiva un servizio di infettivologia con quattro medici (e si sa, di questi tempi, quanto quell’assistenza fosse preziosa). Subito dimezzato, per rinforzare il reparto di Udine. Altra anomalia del recente passato, il robot chirurgico. Per accaparrarselo Pordenone, con l’allora direttore Giorgio Simon, ha dovuto fare i salti mortali, quando, per dire, a Portogruaro c’era già.

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Nemmeno il Cro viaggia a gonfie vele. I direttori generali entrano ed escono da una porta girevole, il direttore scientifico è facente funzioni. La cardiologia non esiste più, dipende da Sacile (da Sacile!). Perfino la chirurgia era stata soppressa (gestione Serracchiani) e ridotta a struttura semplice, poi fortunatamente ripristinata con un’escamotage (tumori molli). Il centro è ora in attesa dell’installazione dei complessi macchinari per la radioterapia protonica anche se i tempi non saranno brevi. Si procede a vista incrociando le dita. Da quelle parti è ancora vivo il ricordo dello scippo della Pet, installata a Udine nonostante le volontà testamentarie di Cecilia Danieli. Con Udine la collaborazione è minima, anzi, vista l’intraprendenza del responsabile friulano Gianpiero Fasola, la rivalità è abbastanza palese. Il Cro ora deve far fronte anche alla concorrenza del Veneto: a Castelfranco è operativo da tre anni l’istituto oncologico, emanazione dello Iov di Padova, che prevede tra l’altro una sessantina di posti-letto per i fuori sede, mentre la stessa regione Veneto ha vietato ai medici di base di prescrivere cure, terapie e interventi negli ospedali di altre regioni.

Non c’è dubbio che molti ingranaggi si sono inceppati anche per una dimensione verticistica imposta dalla gestione Riccardi. L’accentramento è diventato sistematico. Perfino il clima ne ha risentito. Dopo una serie di richiami e circolari nessuno si espone più in prima persona. «Parlo se non mi cita» è il nuovo mantra quando è un giornalista a fare domande. Ha fatto scalpore il licenziamento di un medico a contratto a Sacile per aver criticato la soppressione del reparto Rsa in difesa del quale perfino il sindaco del centrodestra era sceso in piazza. Sulla stessa linea il presidente dell’Ordine, Guido Lucchini: «Le difficoltà esistono da una vita ma in questo momento è meglio soprassedere».

Per il presidente provinciale della Fimmg (Federazione medici di medicina generale), Fernando Agrusti, la crisi della sanità è legata al problema del ricambio generazionale che non c’è. «Mancano medici. Le strutture stentano a sfornare specialità: io ne ho fatte due e ai miei tempi eravamo una decina per reparto. Da quando è diventato obbligatorio stipendiare gli specializzandi i posti si sono ridotti a uno, massimo due. E poi ci sono altri problemi: occorre rivedere i carichi di lavoro e allineare gli stipendi ai parametri europei».

Il disagio di molti operatori sanitari coinvolge un altro aspetto: l’indifferenza dell’opinione pubblica verso le sorti del proprio ospedale. Quando sono scesi in piazza si aspettavano più partecipazione e maggiore solidarietà. Tre anni fa, per creare una maggiore sensibilizzazione, è stata costituita l’Associazione Amici dell’ospedale di Pordenone. Parallelamente si muove anche l’Associazione Amici di Abele Casetta, il funzionario pordenonese scomparso ormai da sette anni, che aveva condotto battaglie infinite per denunciare i soprusi e le sperequazioni territoriali da parte della Regione in materia sanitaria. Tutte battaglie perse, purtroppo. E la realtà oggi è sotto gli occhi di tutti.

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