Volpe Pasini: "Ecco come ho passato nove giorni in cella"
UDINE. È anche merito di un agente della Polizia penitenziaria di Rebibbia se il caso di Diego Volpe Pasini è approdato sul tavolo del magistrato di sorveglianza di Roma meno di 48 ore dopo il suo ingresso in carcere e se la liberazione è arrivata nel tempo “record” - considerati i parametri capitolini - di nove giorni.
Ora che l’incubo è finito e che l’imprenditore e politico udinese è tornato nella propria abitazione romana, con un’ordinanza del tribunale che lo ammette all’affidamento in prova, il ricordo di quei giorni assume contorni sempre più precisi. «Nella mia vita - dice – ne ho passate tante, ma questa vicenda, per come si è sviluppata, è stata davvero kafkiana. Talmente inammissibile, che daremo battaglia in tutte le sedi possibili per avere giustizia».
La notizia dell’arresto ci ha colti tutti di sorpresa. Cos’è successo esattamente?
«In realtà, io lo sapevo da tempo. Era evidente che sarebbe finita così. Tant’è che avevo preparato mia moglie e che da giorni, ormai, andavo ripetendo che era meglio costituirmi, piuttosto che continuare a stare con il pensiero che venissero a prelevarmi. Quella di andare in carcere era stata una mia scelta».
In che senso, scusi, una sua scelta?
«La faccenda, da semplice quale poteva essere, si era complicata a causa di una serie di fattori. E io, di fronte alla prospettiva di essere ammesso alla detenzione domiciliare a Udine, come mi proposero a un certo punto i miei legali, ho preferito restare a Roma. Anche in carcere, se necessario, pur trattandosi di un reato che, sotto una certa soglia, sarà a breve depenalizzato e per il quale i tre quarti dei tribunali italiani, non a caso, rinviano i processi, in attesa che il decreto delegato del Governo renda esecutiva la legge delega approvata dal Parlamento. In fondo, si trattava soltanto di 45 giorni e non di 45 anni. Ma scontarli a Udine mi avrebbe provocato un danno e disagi enormi, costringendo anche mia moglie a trasferirsi per starmi vicino e a trascurare così tutto il lavoro che abbiamo».
Ma cos’è che non ha funzionato?
«C’è stato un pasticcio dietro l’altro. Prima, la decisione del tribunale di sorveglianza di Trieste di dichiarare inamissibile l’istanza presentata dai miei legali per l’affidamento al servizio sociale o a qualsiasi altra misura alternativa. Nella richiesta era stata indicata la residenza, ma non il domicilio e questo è bastato a mandare tutto all’aria. Il provvedimento, in contrasto rispetto alla giurisprudenza triestina di questi anni, è già stato impugnato in Cassazione. Basti pensare che a me, finora, tutti gli atti sono stati regolarmente notificati nella mia residenza. L’indicazione del domicilio, insomma, era del tutto inutile».
Da quel momento, però, la condanna è diventata esecutiva. Poi cos’è successo?
«La successiva istanza con cui i miei legali, l’11 aprile, avevano chiesto l’applicazione della detenzione domiciliare a Udine è stata smarrita dal dirigente dell’ufficio esecuzioni della Procura di Udine. Se questo non fosse successo, il magistrato di sorveglianza di Roma, competente per il mio caso, avrebbe avuto tutto il tempo di ricevere gli atti e decidere il da farsi. Anche su questo aspetto, abbiamo presentato denuncia. E la stessa Procura, di fronte a un simile baillame, è rimasta perplessa».
E così si è arrivati al giorno dell’arresto.
«I poliziotti hanno suonato al campanello alle 7 e io, con assoluta serenità, li ho seguiti. Ma appena messo piede a Rebibbia è capitato un episodio a suo modo divertente e che ha volto al meglio quell’assurda situazione. Ero alla matricola, cioè a quella che in carcere è una sorta di reception, e stavo dando le mie generalità. Uno dei superiori si è accorto che la “fine pena” era indicata nel 2 luglio 2015, ha strabuzzato gli occhi e mi ha chiesto se non ci fosse un errore. Naturalmente, era tutto giusto e allora ha preso carta e penna e mi ha invitato a compilare di mio pugno, in aggiunta a quella già presentata dai miei avvocati, l’istanza di affidamento in prova e di qualsiasi altra misura alternativa, compresa, come extrema ratio, la detenzione domiciliare. Era martedì pomeriggio. Giovedì mattina, il magistrato aveva già mandato al commissariato di Trevi delega per le verifiche sulla mia residenza. Purtroppo, l’operatore di Pg era in ferie e il fax è rimasto inevaso fino a lunedì. La pratica si è risolta nel giro di due giorni: ricevuta la relazione, il magistrato ha dato parere favorevole, l’ha inviato alla Procura di Udine e, giovedì mattina, è arrivato l’ordine di scarcerazione immediata».
Nove giorni in cella, quindi. Con chi la divideva?
«Nella fase di transito, quando si è sottoposti a tutte le analisi sullo stato di salute fisico e psichico ed è concesso di uscire una sola ora al giorno, il numero variava tra i 4 e i 6 detenuti. Mi ricordo in particolare di un mariuolo napoletano in tutto simile a Totò: con i suoi racconti ci ha fatti ridere fino alle lacrime. Dal terzo giorno sono stato assegnato alla sezione G 12, dove c’è molta più possibilità di movimento e socializzazione, in una cella da terzo mondo: il letto aveva un materasso accettabile e un finestrone affacciava sul verde, ma i mobili erano vecchi a rovinati e i muri pieni di umidità. L’ho condivisa con altre quattro persone e insieme la pulivamo due volte al giorno. Dei miei compagni, uno era un napoletano abbastanza colto che, per sfuggire alla moglie, aveva preferito fare il barbone dal lunedì al venerdì, a Termini, e che era rimasto incastrato in una truffa; gli altri tre erano tutti dentro per reati di droga. Dal punto di vista umano, è stata un’esperienza straordinaria: appena sono arrivato, mi è stata subito dimostrata solidarietà e altrettanto ho fatto poi io con i nuovi arrivati. Per contribuire, dall’inizio mi sono offerto di occuparmi della spesa. Se devo essere sincero, mi manca un po’ l’amatriciana che uno di loro cucinava benissimo».
Come ha fatto a sopravvivere a quei giorni?
«Dal punto di vista personale, implica una fatica enorme. Essere privati della libertà è una cosa che non auguro al peggiore dei miei nemici. Tanto più, trattandosi di una follia sul piano giudiziario, e che non esito a imputare all’eccesso di zelo, che può tradursi anche in assenza di buon senso, di certi magistrati. Con gli altri detenuti sono stato bene: non esiste alcuna forma di “nonnismo” e la prospettiva degli sconti di pena per buona condotta rappresenta un incentivo favoloso. Ma le giornate sono lunghe e arrivare alla fine non è facile. Se ce l’ho fatta è stato anche per le persone che mi sono state vicino, a cominciare da mia moglie e mio figlio».
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