Vulnerabile, vero, nudo: che immagine abbiamo del teatro in marilenghe

Fabiana Dallavalle

UDINE. Si potrebbe cominciare da una foto. Una bella foto, con sei giovani attori, tre uomini e tre donne, nudi.

Ci si potrebbe chiedere: perché una foto così è stata scelta per annunciare la prima produzione  del Teatri Stabil Furlan (Tsf): “La Cjase, lagrimis di aiar e soreli” da Siro Angeli. 

Perché scegliere un’immagine che non è “in linea” con l’immaginario del teatro in friulano? Che idea abbiamo del teatro in marilenghe? Come vorremmo che fosse? A chi deve parlare?

La regista, Carlotta Del Bianco è forse partita da un’idea di verità, di vulnerabilità dell’essere umano? Cosa vedremo il 29 maggio, alle 20, al teatro Nuovo Giovanni da Udine?

Questa foto, una sorta di teaser,  vuole forse comunicarci una svolta, un nuovo punto di partenza o di osservazione del teatro in lingua friulana? Ci viene in aiuto  l’illuminato saggio di una grande intellettuale, studiosa e critica friulana, scomparsa tre anni fa, Angela Felice, dal titolo “Il teatro della sincerità di Siro Angeli” (in S. Angeli Anthologica. Il teatro, La poesia, La critica, a cura di Ermes Dorigo, Campanotto,1997).

Felice fissava con sintesi fulminante, il tratto dominante dei drammi del poeta, drammaturgo e sceneggiatore nato nel 1913 a Cavazzo Carnico e morto a Tolmezzo nel 1991; «Al di fuori di ogni ipotesi idillico-arcadica – scriveva - di ogni facile conclusione consolatoria, i testi si chiudono sempre con note di amara, ambigua malinconia».

Amara, ambigua, malinconia. E ancora:  “Un teatro estraneo ad ogni intento folclorico, cronachistico, documentario, sociologico, la Carnia di Angeli, nel mentre dà testimonianza di un definito paesaggio umano della fame, si trasfigura quindi in metafora del male esistenziale, e della colpa che impedisce la gioia, la leggerezza e l’innocenza. Il male si concretizza nella figura della morte, che non a caso compare spesso”.

Leggerezza, innocenza. Infine: “Teatro di situazioni, e di quadri più che di azione, esso si iscrive allora nell’area del simbolismo: la realtà portata in scena tende a svuotarsi di ogni oggettività autosufficiente e a rinviare, per la sua comprensione, a un piano universale, estraneo a concreti agganci di ambito storico o geografico”.

Una prima produzione, dopo il lungo silenzio dei teatri, una riduzione e traduzione dall’originale di Angeli a cura della regista, Carlotta Del Bianco, di Paolo Patui (che in veste di primo direttore artistico ha fortemente voluto questo progetto) e Paolo Sartori.

Un autore di cui ricorrono quest’anno i trent’anni dalla scomparsa a cui dobbiamo il tratto classico del teatro, quel mettere in scena situazioni,  ambienti o  tipi umani per parlare d’altro e di qualcosa d’essenziale. Personaggi che, lungi dal dividersi in positivi o negativi e dall’essere giudicati moralisticamente, hanno tutti una loro umana fragilità e si inseriscono in una comune esperienza esistenziale. Un teatro della parola, una drammaturgia “metafisica”, un buon punto di partenza, che esce dagli stilemi consueti e punta a un racconto contemporaneo consegnando a sei attori nudi l’immagine di un nuovo e potente messaggio di verità, fragilità, universalità.

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