A trent’anni da “Balla coi lupi” Kostner torna al western in tv

Hatfields & McCoys...KEVIN COSTNER PLAYS ANSE HATFIELD.IMAGE PROVIDED BY CHANNEL 5
Hatfields & McCoys...KEVIN COSTNER PLAYS ANSE HATFIELD.IMAGE PROVIDED BY CHANNEL 5

SIMONA SIRI

Racconta Kevin Costner che la prima volta che gli fu presentato il progetto di Yellowstone ancora se ne parlava come di «un film molto lungo». A proporglielo fu Taylor Sheridan, candidato all’Oscar per la sceneggiatura di Hell or High Water (film del 2016 con Jeff Bridges) e già dietro al successo di Sicario e Soldado. Costner, amante del genere anche per ragioni personali, accettò con entusiasmo. William Costner, il padre, era uno degli undici figli di Walter e Tig C-ostner, cresciuti in una fattoria di grano dell’Oklahoma fino a quando la Grande Depressione non gli portò via tutte le terre. Kevin, nato in California, del passato della sua famiglia ne ha solo sempre sentito parlare e da bambino neanche pensava di poter un giorno diventare uno di quei cowboy che vedeva sullo schermo. «Ero un ragazzino ingenuo. Pensavo che gli attori nascessero già attori, non sapevo che era un mestiere che si poteva scegliere».

È anche per questo, per soddisfare quel bambino che sognava di salire a cavallo, che in vita sua di film western alla fine ne ha girati parecchi. «Come potevo perdere l’occasione di girarne un altro?», si chiede l’uomo la cui stessa carriera è fatta di titoli nel frattempo diventati classici come Open Range, Silverado e Balla coi lupi.

Il problema con Yellowstone fu però che quel film lungo si trasformò poco dopo in una miniserie di dieci episodi e poi in uno spettacolo televisivo a tutti gli effetti, fatto di stagioni e di impegno costante.

Costner, sessantaquattro anni da divo, a quel punto si sentì a disagio per «ciò che significava per la sceneggiatura, il mio personaggio e, soprattutto, la mia carriera. In un certo senso mi sembrava che molte cose fossero state messe insieme perché avevo accettato di farlo. Mi sono trovato nella situazione di pensare che se avessi detto che non l’avrei fatto, si sarebbe sbriciolato tutto il progetto prima di iniziare. Emotivamente mi sono preso sulle spalle una grossa responsabilità».

Giunto in Usa alla terza stagione e in arrivo in Italia su Sky da domani, Yellowstone nel frattempo è diventato un successo e Costner è ben felice di farne parte anche se, ammette, «non è stato facile adattarmi, ma quando hai l’occasione di raccontare una storia ambientata in Montana, con quel panorama, con quella magnificenza, beh allora sei fortunato». Il personaggio che interpreta è John Dutton, capofamiglia proprietario di un ranch che l’attore descrive come «un patriarca, un uomo d’altri tempi ma con la mentalità del Ceo», disposto a tutto pur di salvare la sua terra.

Intorno a lui ruotano i quattro figli: Kayce, un veterano che ha lasciato il clan per vivere in una riserva indiana con la moglie e il figlio; Jamie, un brillante avvocato con ambizioni politiche; Beth, l’unica donna, simile al padre, intelligente quanto problematica e Lee, il delfino, quello che ha sempre vissuto nel ranch, succube del padre da cui cerca costante approvazione.

«In Montana esistono ancora famiglie che vivono grazie ai ranch, ma come gli agricoltori devono affrontare problemi nuovi e diversi rispetto alle generazioni precedenti. Oggi chi vive di ranch e cavalli deve guardarsi da forze esterne».

L’urbanizzazione, la costruzione di un Casinò, la corruzione politica, le rivendicazioni dei nativi americani sono tutti temi che rendono Yellowstone un racconto contemporaneo.

«Più dei paesaggi e dei duelli con la pistola - continua Costner - del western mi ha sempre affascinato l’economia del linguaggio. Il classico cowboy è schivo, non parla molto, non ha la frenesia di riempire i silenzi, ma il suo linguaggio ha qualcosa di musicale. Quando interpreto questi personaggi è come se mi ritrovassi immerso in una danza dai tempi dilatati». È per questo che non gli piacciono tutti i film del genere, solo una decina.

«Detesto quelli dove il linguaggio è approssimativo, la narrazione mediocre. Il buon western è quello che un po’ mette paura: chi, da uomo buono, non sarebbe spaventato andando in giro in un mondo pieno di psicopatici capaci di uccidere per nulla? Nel western classico il sentimento predominante è la vendetta, un sentimento che in questo paese in molti, dopo la guerra civile, hanno praticato». —



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