Ad Aquileia rinasce la domus di Tito Macro unica casa romana scavata integralmente

Qual è l’importanza della domus di Tito Macro nel quadro dell’archeologia aquileiese e non solo aquileiese?
Innanzitutto si tratta dell’unica abitazione di età romana scavata integralmente nella città altoadriatica. Si pensi a quante centinaia di mosaici di case private siano state restituite dal sottosuolo aquileiese (quasi ottocento, addirittura, secondo un censimento dell’Università di Padova edito nel 2017), e tuttavia di nessuna finora si era potuto ricostruire nella sua interezza la planimetria.
Grazie alle indagini condotte dall’Università di Padova, sotto la direzione di Jacopo Bonetto e dei suoi collaboratori, siamo finalmente in grado di conoscere la fisionomia e l’articolazione di una domus aquileiese, riprendendo e completando il lavoro di archeologi di assoluto rilievo come Giovanni Brusin e Luisa Bertacchi.
La casa si sviluppava tra due strade parallele in senso nord-sud, una delle quali ancora visibile, all’interno di un isolato che doveva comprendere almeno altre quattro o cinque unità abitative. In origine (nel I secolo a.C.) la domus, già caratterizzata da un impianto ad atrio (altra importante novità per l’archeologia aquileiese), era più piccola e occupava solo metà della larghezza dell’isolato. Interessante la sua posizione, oggi diremmo periferica, poiché l’isolato era delimitato a sud dalle mura repubblicane risalenti alla fondazione della città nel 181 a.C.
Ma quando si procedette alla completa trasformazione della domus, entro la metà del I secolo d.C., questo lato delle mura era probabilmente già stato abbattuto, per consentire l’espansione urbana di Aquileia nella zona oggi occupata dalla basilica.
Ormai l’originario perimetro della cinta era diventato insufficiente a contenere lo sviluppo della città, cresciuta a dismisura grazie ai commerci con l’intero mondo mediterraneo. L’isolato veniva a trovarsi perciò in una posizione ben più centrale rispetto a prima.
La “domus di Tito Macro” si iscrive appieno in questo contesto storico. Un edificio enorme, di 1.700 metri quadrati (un’estensione con pochi confronti in Italia): per costruirla, il proprietario (di certo danaroso) dovette probabilmente acquisire una casa adiacente al nucleo originario e realizzarvi il bel giardino con un corridoio che lo circondava, la grande sala di ricevimento, gli altri ambienti di soggiorno e le sale da pranzo. Il tutto decorato con i bellissimi pavimenti musivi in bianco e nero o con inserti policromi, che il restauro ha riportato all’antico splendore.
È invalso in particolare a Pompei l’uso di denominare le case sulla base delle iscrizioni di possesso presenti su oggetti rinvenuti al loro interno o di graffiti tracciati sui muri. A un certo Tito Macro apparteneva un peso di pietra scoperto nei recenti scavi all’interno della domus aquileiese, e quindi a buon diritto possiamo considerarlo il proprietario della casa all’inizio dell’età imperiale. Purtroppo, ne conosciamo il prenome e il cognome, ma ci manca il gentilizio, ovvero il nome di famiglia, e quindi non siamo in grado di definire meglio l’ambiente sociale di appartenenza e gli eventuali collegamenti con il ceto dirigente della città, né di arguire l’origine delle sue fortune.
Ma, come si sa, l’archeologia riserva sempre delle sorprese, e chissà che in futuro la figura di Tito Macro non assuma una fisionomia più precisa.
*archeologo e direttore della Fondazione Aquileia
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