Adolescenza infranta, vita sul set

“Il ragazzo dai pantaloni rosa” della regista Margherita Ferri allo Splendor di San Daniele: «I giovani faticano a parlarne, ma dopo la visione qualcuno prende coraggio»

Gian Paolo Polesini
Samuele Carrino e Claudia Pandolfi in una scena del film, a destra la regista Margherita Ferri
Samuele Carrino e Claudia Pandolfi in una scena del film, a destra la regista Margherita Ferri

“Il ragazzo dai pantaloni rosa” ha governato nel 2024 la hit parade del cinema italiano fino alla discesa nelle sale delle donne di Ozpetek con “Diamanti”.

Il film, disegnato da Margherita Ferri, una giovane regista imolese, si prese la briga di superare con gli incassi persino l’opera di Paolo Sorrentino, il mentore della cineasta romagnola.

«Quando ritirai il biglietto d’oro lui stava in platea e mi venne naturale ricordare la sua lezione propedeutica per entrare al Centro sperimentale, qualche anno fa. Paolo poi mi ringraziò del pensiero affettuoso. Probabilmente senza la sua guida non sarei mai entrata nell’Olimpo delle scuole cinematografiche peninsulari, ricorda Ferri».

“Il ragazzo dai pantaloni rosa” è una pellicola ad alto tasso di sensibilità. Ripropone la storia vera di un adolescente, Andrea Spezzacatena, che preferì uccidersi piuttosto di sopportare le insistenti angherie dei suoi compagni di classe.

Ferri accompagnerà la sua pellicola alla proiezione di oggi, sabato 1 febbraio, in programma alle 21 allo Splendor di San Daniele, preceduta da una matinée riservata alle scuole.

Margherita, quando avvertì la necessità di dedicarsi al cinematografo?

«Al liceo, sì, in quegli anni lì. Solitamente, nel quinquennio formativo ti dedichi a un qualcosa che sia sport o arte. E io scelsi di assemblare immagini. Quindi all’università — mi iscrissi a Comunicazione — maturai un desiderio maggiore e volai in America con Erasmus, rientrando con un pesante bagaglio a mano. E fu allora che decisi di fare sul serio».

Oltre a Sorrentino pure Bellocchio è presente nella sua biografia.

«Con Marco noi del corso affrontammo alcune lezioni assai preziose. Ricordo la sua carica di gioventù, un entusiasmo che ti arrivava con nitidezza».

Si sta delineando il suo stile: il fascino della cruda cronaca. La sua formazione qual è stata?

«Tifavo per le pellicole indipendenti americane. A proposito mi piace ricordare Gus Van Saint assieme a parecchi “amici” europei quali lo svedese Lukas Moodysson e la britannica Andrea Arnold. Vorrei rammentare lo straordinario Pier Paolo Pasolini, una specie di folgorazione giovanile, nonché una buona parte del Neorealismo nonostante lo abbia scoperto tardi, ammetto la colpa».

Il suo lavoro più meticoloso?

«Direi quello sul linguaggio del cinema e sull’estetica. Mi piacciono le cose ben fatte, non tanto la macchina a mano, ecco. Cerco la raffinatezza anche se la storia è piccola, non importa».

Tantissimi cortometraggi e poi arrivò il primo lungo, “Zen sul ghiaccio sottile”, che fra l’altro fu interpretato da un’attrice di Udine, ovvero Susanna Acchiardi.

«Eccome no, Susanna è stata una conoscenza indispensabile per il mio progetto e non abbiamo smesso di sentirci. Riguardo al film, certo, esplora più o meno lo stesso soggetto di quest’ultimo che presenterò da voi in Friuli, ovvero il disagio giovanile e il bullismo, fattori primari — almeno per me — adatti a finire in un racconto cinematografico affinché l’eco delle brutte gesta oltrepassi lo schermo e accompagni gli spettatori in una profonda riflessione. La vicenda riguarda Maia, una ragazza che gioca in una squadra maschile di hockey, che viene saccheggiata dai compagni di squadra per il suo essere un maschiaccio. C’è una certa assonanza col caso di Andrea, lo riconosco».

Ciò che risalta dal film è il forte senso della vita che sovrasta quello della morte.

«Avrei voluto scegliere un finale diverso, ma se ti prendi cura della vita vera sai che questo non lo puoi fare. Hai la facoltà, però, di dare luce al buio, di evitare un prodotto nichilista abbracciandone un altro pieno di speranza. Speri che questa faccenda orrenda diventi col tempo solamente un pessimo episodio del passato. I giovani faticano a parlarne, ma quando poi siamo tutti insieme alla fine della proiezione qualcuno prende il coraggio. E tante voci possono fare rumore».

Che adolescenza ha vissuto Margherita?

«Stimolante nel mio habitat provinciale. Non vorrei creare malintesi sulla location: diciamo che le occasioni te le dovevi andare a cercare, ecco, in città dialoghi con maggiori opportunità. Facevo teatro, ragionavo a immagini supportata dai miei fratelli che disegnavano. Tanto cinema, molta tv. A quell’età già s’intravede la strada. Poi sta a te se percorrerla o sceglierne un’altra».

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