Bordon e “Un momento difficile”: «Essere in scadenza, che pena»
Si è conclusa a San Vito al Tagliamento la prima parte della tournée regionale dI “Un momento difficile”, l’intenso atto unico di Furio Bordon interpretato da Massimo Dapporto e Ariella Reggio. Al centro dell’azione scenica un’anziana madre, che in punto di morte cerca, a modo suo, di fare i conti con il passato e il presente. Un copione, che nonostante il “momento difficile” del titolo, è pieno di sottile umorismo e leggerezza. «Un testo scritto in poco tempo – spiega l’autore –, un anno prima della morte di mia madre, e questo ci tengo a sottolinearlo per sgombrare il campo da ogni autobiografismo. Di autobiografico è solo il quadro clinico cui ho assistito, ma i personaggi che ne sono venuti fuori sono completamente diversi dalla realtà delle persone della mia famiglia».
Da che deriva questa autonomia dei personaggi? «I personaggi appena cominci a scrivere ti prendono per un polso e ti portano dove vogliono loro. Questo è un bene perché vuol dire che sono vivi, se invece tu li costringi nella gabbia di un percorso preordinato sono inerti ubbidienti, significa che non sono nati».
In ogni lavoro di scrittura comunque c’è qualcosa del suo autore, la sua poetica. Che cosa esprime questo testo rispetto al suo modo di vedere il mondo? «Direi che è la grande pena che ho sempre provato per le persone che invecchiano e difronte hanno solo la morte e che quindi devono confrontarsi con questo memento difficile. Mi fanno pena perché sono fragili, deboli, impaurite, sole; perché è una grande brutalità che un essere umano debba sapere, è l’unico essere vivente che lo sa, consapevole che è a scadenza e quando si avvicina la scadenza e chiaro che la vive con angoscia e questa angoscia mi ha sempre fatto grande pena. E compassione». La forza di questo testo, come de “Le ultime lune” e “La notte dell’angelo” (raccolti nel bellissimo “Le stanze di famiglia”), al di là della costruzione drammaturgica che intreccia sapientemente le storie dei vari personaggi, è nei dialoghi, di cui lei è specialista. Da cosa le deriva? «La risposta è semplicissima e inspiegabile. Molti scrittori ti dicono che quando erano piccoli si raccontavano le favole da soli; nella mia testa da quando ero piccolo nascevano sempre due persone che dialogavano tra l oro. Due le soluzioni: o ero un caso da incipiente schizofrenia oppure era una mia congenialità che non mi spiego. Il dialogo mi è sempre sembrato giusto per esprimere i personaggi, non attraverso la descrizione della voce narrante, ma attraverso le loro stesse parole e azioni. Il mio modo di creare i personaggi non è tanto parlando di loro quanto facendoli parlare. E poi non mi piacciono le descrizioni».
Nuove recite in regione dal prossimo 26 al Rossetti di Trieste e l’11 marzo al Bon di Colugna. —
M.B.
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