Cantore visionario dell’Italia contadina umile, ma preziosa

La morte del regista de “L’albero degli zoccoli” Il legame con il Friuli, il mondo degli “Ultimi”
16 May 2012, Turin, Italy --- TV show, Quello che non ho. Pictured: Ermanno Olmi --- Image by © Andrea Oldani /Splash News/Corbis
16 May 2012, Turin, Italy --- TV show, Quello che non ho. Pictured: Ermanno Olmi --- Image by © Andrea Oldani /Splash News/Corbis

La “Dolce vita” felliniana conquistò il mondo raccontando il lato italico più piacevole e trasgressivo. Impresa complessa se si narra invece la verità di un ambiente povero, conficcato nella campagna bergamasca di fine Ottocento dove ogni barlume di speranza era appeso all’albero, come gli zoccoli. Ermanno Olmi osò e stupì tutti, compreso il nostro ministero dello spettacolo che non riconobbe l’italianità del suo film quando lo presentò al festival di Cannes nel 1978. Del resto, gli attori erano proprio contadini autoctoni e parlavano in un ostico dialetto. Nemmeno padre David Maria Turoldo aveva avuto tanto coraggio quando aveva mostrato la miseria friulana ne “Gli ultimi”, film nel quale gli attori, curiosamente doppiati, si esprimevano in un poco credibile italiano. Olmi vinse la Palma d’oro, colpì al cuore il pubblico internazionale, in particolare quello americano, e sbarcò in Friuli vincendo a Percoto il premio Nonino, che era agli albori e cominciava il cammino grazie allo straordinario gruppo di scrittori, poeti, registi guidati dall’immenso Mario Soldati.

Il film di Olmi fornì uno strumento formidabile per diffondere il messaggio alla base del premio stesso e di quel festoso ritrovarsi ogni anno in un puntino della carta geografica a due passi da Udine. C’era sintonia totale con il regista che voleva narrare la condizione operaia o contadina non come teorema sociale o ideologico, bensì partendo dai rapporti veri nati dentro le comunità, fra uomo e uomo, donna e donna, attraverso le scene e le parole che rendono le cose semplici e comunque più ricche, tornando indietro per andare avanti. Discorsi urgenti e utili, come diceva Turoldo, in un tempo balordo e disuguale nel quale si concentrano le ricchezze nelle mani di pochi e dilaga la miseria, con il rischio che sarà sempre peggio.

Il percorso di Olmi, partendo dall’“Albero degli zoccoli”, ci lascia un racconto coerente lungo oltre mezzo secolo, mai avulso dal mondo nel quale ci muoviamo, per rammentare che molti di noi (anzi, in senso antropologico, davvero tutti) abbiamo un avo contadino, risalente a pochi decenni fa. Se spezziamo il filo di tale conoscenza saremo ancora più spaesati. Messaggi vivi e necessari più di quanto non si creda. Nel primo film realizzato dopo numerosi documentari, “Il posto”, Olmi raccontava nel 1963 la storia d’un piccolo impiegato senza il trionfalismo da boom economico presente nelle pellicole dell’epoca (fra vacanze al mare e twist a gogo). Quel tono dato alla vicenda è comprensibile soprattutto al giorno d’oggi, quando l’incubo del lavoro e del posto dilania le esistenze dei ragazzi. Scenari per i quali Olmi polemizzava ritualmente con quanti lui definiva “borghesi da salotto”, tipo Moravia che stroncava i suoi film. Pure per questo motivo il regista lasciò Milano e si trasferì in un pianeta confacente. Lo aveva trovato nella Asiago di Mario Rigoni Stern, dov’era salito giovane con il sogno, mai realizzato, di trasformare in film il romanzo sui ricordi di Russia “Il sergente nella neve”. Anche in quel caso avrebbe voluto partire dalle vicende di ogni soldato, di ogni alpino, per far vedere gli aspetti importanti della vita e quelli marginali.

In fondo è stato questo il sentimento profondo che ha guidato Olmi, con la costanza rivelata nella sua autobiografia (“L’Apocalisse” è un lieto fine) e nelle interviste rilasciate alle feste dai Nonino, alle quali partecipava con divertimento trovandosi proprio a casa. Ecco una citazione: «Abbiamo perso il senso della realtà perché non la frequentiamo più. Si è così smarrito il legame tra cultura popolare e cultura d’élite». Questo era pure il cruccio di Pasolini, al quale lo legava un paio di documentari negli anni Cinquanta. Ermanno girava le scene, Pier Paolo scriveva il testo rivelando la vita dei minatori, che uscivano da sotto terra gustando il profumo del fieno appena tagliato. Una scena simbolica a ricordo di un uomo buono, di un artista generoso, fedele alle piccole grandi cose che contano.

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