Caporetto, la verità su chi restò fino all'ultimo e il fuggi fuggi dei notabili friulani

Chi perse? Certamente Cadorna, Capello, Badoglio, Cavaciocchi. Ma anche la classe dirigente friulana, incondizionatamente favorevole alla guerra, scappata quasi al completo

UDINE. Chi vinse, in termini militari, nell'ottobre 1917 lo sappiamo bene: vinse la XIV Armata germanica agli ordini di Otto von Below, che eseguì alla perfezione il piano di attacco disegnato dal capo di Stato maggiore Konrad Krafft von Dellmensingen, affiancata dalle armate austro-ungheresi comandate da Svetovar Borojević von Bojna. Anche chi perse, sappiamo: la II Armata del generale Capello. Con lui Cadorna, Badoglio, Cavaciocchi e altri comandanti.

Ma recentemente è stato pubblicato un libro intitolato “A Caporetto abbiamo vinto”: è proprio vero? Sí, molti italiani vinsero, o quanto meno non furono sconfitti verso la fine di quel tragico ottobre. Non fu sconfitta la III Armata, protetta a Pozzuolo del Friuli e a Mortegliano dai reparti che si immolarono nella battaglia d'arresto.

Non persero quei reparti che a Pradis e dintorni tentarono di fermare la marcia di Rommel sulle Prealpi. Non perse l'ignoto artigliere che a Bocchetta Sant'Antonio sopra Canebola, munito di una sola mitragliatrice, tenne in scacco per trentasei ore un folto reparto degli attaccanti.

Non perse quel soldato che, quasi emulo di Gavrilo Princip a Sarajevo, uccise a San Gottardo il generale von Berrer, rallentato da un'incauta manovra del suo autista. Non persero gli Arditi che accorsero alla difesa di Udine dal campo di addestramento di Sdricca di Manzano. Non perse mio nonno materno Ambrogio Arundello, che finì prigioniero.

Non persero molti soldati che tentarono di resistere all'offensiva spesso improvvisando azioni isolate. No, non persero i soldati, a Caporetto, e Cadorna uscì sconfitto due volte, perché non si suicidò, come avrebbe fatto un alto ufficiale giapponese, e scaricò la colpa della disfatta sui soldati.

È noto, infatti, che egli, quando fu chiaro il quadro della catastrofe, emise un bollettino che scaricava la responsabilità della disfatta sui soldati che si erano vilmente arresi. Intervenne immediatamente il governo, che bloccò il bollettino di Cadorna, ma la stampa estera ne aveva già diffuso il testo.

Che cosa ci si poteva attendere, d'altronde, da un uomo che considerava disertori i prigionieri, e per questo si opponeva a ogni invio di soccorsi umanitari nei campi di concentramento? Si rimane soltanto increduli sapendo che era rimasto al vertice fino a quel momento, dopo undici improduttive “spallate”.

No, nei giorni di Caporetto non furono sconfitti quei civili che riuscirono a trasportare a Firenze i 330 bambini del Brefotrofio Provinciale di Udine, otto dei quali morirono durante il viaggio, e i 368 ospiti del manicomio di Sacile, trasferiti a Napoli.

E allora chi perse a Caporetto? Certamente Cadorna, Capello, Badoglio, Cavaciocchi..., che finirono assolti dalla Commissione d’inchiesta (l'Italia è il paese della Commissioni d'inchiesta!), anche perché alcune pagine furono cassate dal governo fascista, determinato nel presentare agli italiani la disfatta di Caporetto come un'abile ritirata strategica!

Difficile definire abile e accorta una ritirata che comportò la perdita di centinaia di migliaia di uomini, di un'ingentissima quantità di materiale bellico, di viveri e vestiti, e si lasciò alle spalle un'inimmaginabile devastazione.

Ma in effetti, sia pure fuori programma, qualche vantaggio ci fu: accorciamento del fronte, ridotto circa alla metà dei seicentocinquanta chilometri dallo Stelvio a Monfalcone, e allungamento delle linee di rifornimento per gli austro-ungarici.

Ma nei giorni di Caporetto perse la partita anche la classe dirigente friulana, incondizionatamente favorevole alla guerra, fuggita quasi al completo. Il vuoto di potere sorprese e indispettì gli invasori, come testimonia Giuseppe Del Bianco che, nell'opera “La guerra e il Friuli”, registra il commento in latino di un generale medico al seguito di Otto von Below: “Auctoritates civicae nefandum scelus commiserunt reliquendo Utinum”. (Le autorità commisero un grave delitto abbandonando Udine).

I friulani riuscirono a farsi ulteriormente del male perché i profughi ostentarono la fuga come prova della loro superiore “italianità” nei confronti dei rimasti, considerati poco italiani se non complici degli invasori. Si aprì così una ferita sociale, e talvolta familiare o parentale, che si sarebbe rimarginata in molti anni.

©RIPRODUZIONE RISERVATA


 

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto