Caravaggio o no? La Buona Ventura, il quadro misterioso in mostra a Illegio

Esce da una collezione privata l’opera che interroga gli studiosi. Copia o originale? Il dibattito è aperto e l’analisi solo all’inizio  

Giovedì 9 maggio, alle 10.30, nella sala convegni della Fondazione Friuli in via Manin, a Udine, don Alessio Geretti svelerà i segreti di uno dei quadri più attesi della mostra di Illegio. Vi anticipiamo, per gentile concessione dell’autore, alcuni stralci del corposo saggio sull’opera che il curatore ha realizzato per il catalogo.

In questa mostra a Illegio appare per la prima volta, offerta al pubblico e all’indagine degli studiosi, una tela di straordinario interesse, oltre che di notevole pregio: un’inedita versione, olio su tela, di 96 per127 centimetri, attualmente conservata in collezione privata di ambito senese, de “La Buona Ventura” di Michelangelo Merisi da Caravaggio ammirabile nella collezione dei Musei Capitolini a Roma.

Prima di classificare troppo velocemente il dipinto tanto nel novero delle copie di maggiore o minore qualità dei soggetti di Caravaggio, quanto nell’elenco – assai difficile da stilare – dei suoi doppi autografi, il dipinto appena scoperto meritava, a giudizio di chi scrive, uno studio così accurato e prudente, da esigere anzitutto approfondite analisi diagnostiche dello stesso tipo di quelle eseguite sulle opere certamente dipinte da Caravaggio ed esposte nella recente mostra “Dentro Caravaggio” a Palazzo Reale a Milano (29 settembre 2017 – 28 gennaio 2018); di tali analisi – per l’appunto commissionate dall’organizzazione di questa mostra al noto laboratorio Mida di Claudio Falcucci, di Roma 1 – anticipiamo qui in sintesi le principali risultanze.

L’inedito dipinto esposto ora in mostra, custodito attualmente in una collezione privata nella quale entrò da altra collezione privata in seguito ad acquisto nella seconda metà del Novecento, è stato osservato fino a oggi solo dal senese Marco Ciampolini, che nella sua analisi non pubblicata rileva come il suo autore l’abbia dipinta con il modello capitolino di fronte, tanta è la fedeltà con quello nelle linee e nei colori.

Rispetto alla tela capitolina l’opera in oggetto ha dimensioni inferiori di quasi 20 centimetri in altezza e 25 in larghezza (“La Buona Ventura” capitolina misura 115 per 150 centimetri). Oltre il gomito sinistro del giovane il quadro in mostra concede qualche spazio in più alla tela centrando meglio il gruppo nella superficie disponibile (difficile dire se ciò corrisponda alla situazione originaria del quadro capitolino, magari leggermente ridotto su quel lato per adattarlo all’attuale cornice, che non è quella originaria e risale al secondo Settecento).

Lo sguardo percepisce inoltre l’ingiallimento di una vernice superficiale evidentemente ossidata, qualche piccola caduta di colore non significativa, ma anche diffuse e fitte microfratture della superficie pittorica, che secondo Ciampolini attestano la produzione artigianale e non industriale dei pigmenti, databili quindi al massimo entro la fine del Settecento. Sul retro della tela è presente un bollo in ceralacca rossa, in posizione analoga al timbro presente sul retro dell’opera capitolina, indicazione della collezione originaria o, secondo Ciampolini, di un transito presso una dogana; a colpo d’occhio è impossibile cogliere a quale collezione rimandi il sigillo.

Prima di accostare a questi elementi di immediata visibilità i dati emersi dalle analisi diagnostiche sul quadro in mostra, è opportuno ricostruire le complesse vicende legate ai dipinti di Caravaggio che ritraggono una zingara sorridente che ammalia un giovane leggendo nella sua mano il futuro e tentando contemporaneamente di sottrargli con abilità l’anello dal dito.

Quanti e quali sono questi dipinti? Una versione analoga alla tela capitolina, ma con evidenti varianti, è giunta al Louvre dalla collezione del re di Francia Luigi XIV, che l’aveva ricevuta in dono nel 1665 da Camillo Pamphilj, a sua volta erede del quadro da parte della madre Olimpia che l’acquistò da Caterina Vittrice, figlia di Girolamo, cognato di quel Prospero Orsi che a Roma, insieme al mercante Costantino Spada, ebbe un ruolo decisivo nell’aiutare Caravaggio a farsi conoscere come valente pittore e a trovare ottima accoglienza, nella primavera del 1597, presso il quarantottenne cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte.

Proprio nella collezione Del Monte è attestata “La Buona Ventura” oggi ai Musei Capitolini: acquistata nel 1750 essa vi giungeva dalla vendita di una parte della collezione raccolta dal cardinale Carlo Pio, che a sua volta il 5 maggio 1628 acquistò il dipinto di Caravaggio, insieme ad altri tre importanti quadri, dall’asta che gli eredi del cardinale Del Monte furono costretti a indire poco più di un anno dopo la morte del raffinato ecclesiastico; nell’inventario post mortem dei beni di quest’ultimo è inconfondibilmente identificabile la «Zingara del Caravaggio grande palmi cinque con cornice negra».

Nella collezione Del Monte il dipinto s’accompagnava a un altro quadro di Caravaggio dal soggetto curioso, “I bari”, oggi al Kimbell Art Museum di Fort Worth, che presenta caratteri stilistici e di esecuzione del tutto analoghi alla Buona Ventura. (...)

Concentrando l’attenzione sul caso della “Buona Ventura Del Monte”, a cui s’avvicina assai più che a quella “Vittrice” il quadro ora in mostra a Illegio rimane anzitutto non risolta la questione della genesi di quell’opera.

Giovanni Baglione infatti dà notizie su questa “Zinghera” in modo tale da non consentirci di ricostruire con certezza se si trattasse di uno dei dipinti commissionati a Caravaggio dal cardinale – insieme a “I musici” e a “Il suonatore di liuto” –, o se fosse tra i quadri venduti al cardinale da Costantino Spada, che aveva la propria bottega accanto al palazzo dell’ecclesiastico e che aveva a propria volta acquistato per otto scudi dal pittore economicamente disagiato e non ancora assunto in regolare servizio dal cardinale stesso.

Ad aggiungere notizie sulle opere che Caravaggio dedicò all’innovativo e accattivante soggetto della “Buona Ventura” è il senese Giulio Mancini, medico di Urbano VIII e amatore d’arte: un noto studio di Michele Maccherini ha permesso di conoscere questa figura, tra le più interessanti dell’ambiente artistico dei primi anni del Seicento romano, rintracciando l’archivio familiare dei Mancini e in particolare alcune lettere di Giulio inviate da Roma al fratello Deifebo a Siena, diverse delle quali riguardanti anche Caravaggio e il cardinale Del Monte, ambedue conosciuti personalmente da Giulio.

(...) Il supporto del dipinto – che presenta le tipiche deformazioni sui lati provocate dall’ancoraggio al telaio originale, mai sostituito – è un’unica pezza di tela, tessuta ad armatura tela, con una densità di circa 9 per 9 fili/2 centimetri. È esattamente la stessa tela utilizzata da Caravaggio per dipingere “Giuditta e Oloferne” nel 1602, oggi a Palazzo Barberini, e analoga alle tele utilizzate per il “Ragazzo morso da un ramarro” del 1597 o per “Marta e Maria Maddalena” del 1598.

Si tratta in realtà di una tela di uso normale tra fine Cinquecento e inizio Seicento, che di per sé non permette di trarre conclusioni significative anche per il fatto che Caravaggio dipinse davvero su supporti di ogni genere. Certamente, però, si tratta di una tela compatibile con l’epoca della “Buona Ventura” capitolina, non certo ottocentesca insomma.

(...) L’analisi della preparazione della tela è di grande interesse. Lo strato di preparazione steso dal pittore del quadro in mostra a Illegio ha una tonalità bianca lievemente ingrigita e con una punta ocra, risulta composto da gesso e colla, con la presenza di una componente minoritaria di carbonato di calcio e scarsi grani di un pigmento nero di natura carboniosa e di un pigmento del tipo dell’ocra gialla.

Nella produzione di Caravaggio questa preparazione si trova nel caso della “Conversione di Saulo” in collezione Odescalchi a Roma – uno di pochi dipinti su tavola realizzati da Caravaggio e l’unico che si conosca a essere stato integralmente realizzato da lui, dall’assemblaggio del supporto fino alla stesura pittorica –, dove l'analisi della preparazione ha evidenziato una stratigrafia incredibilmente simile a quelle della tavole cinquecentesche, con vari strati di gesso e colla sovrapposti, addirittura rispettosa dei dettami di Cennino Cennini.

Caravaggio aveva in effetti una conoscenza straordinariamente approfondita della tecniche artistiche dei maestri a lui precedenti e aveva assorbito in profondità tutto quello che delle tecniche antiche poteva tornare utile ai suoi fini estetici.

Ora, Caravaggio ha utilizzato preparazioni chiare o brune o scurissime a seconda degli effetti che intendeva ottenere, ed è curioso che nel caso della “Buona Ventura” capitolina egli abbia steso sulla precedente Madonna una preparazione bianca di lieve tonalità grigiastra con una punta di ocra, sebbene non utilizzando gesso e colla.

Chi dipinse il quadro ora in mostra a Illegio sapeva quale tonalità avesse la preparazione del dipinto in casa del cardinale Del Monte? O operava addirittura potendolo vedere nel suo nascere e prendere forma, come sarebbe nel caso dell’opera di un collaboratore o «scholaro» che segue passo passo il metodo del maestro? Certamente la coincidenza fa pensare.

Va inoltre detto che la preparazione a base di gesso e colla è, come si è accennato, una tecnica propria dei pittori sino alla fine del Cinquecento, sempre più di raro utilizzata di lì in avanti se non per la pittura su tavola; quand’anche, dunque, il dipinto attualmente proveniente dal senese fosse una copia, anche di alcuni anni successiva all’originale del Merisi, esso rimanda a una procedura che meglio si collocherebbe nei primi anni del Seicento, non molto oltre.

Quanto alla composizione del dipinto ora esposto in mostra, essa è stata impostata mediante la redazione di un disegno preparatorio caratterizzato da linee molto sottili, stese principalmente nella definizione delle sagome delle figure e dei lineamenti dei volti, come visibile a esempio nella definizione del sopracciglio e della palpebra superiore dell’occhio destro della donna e dell’occhio sinistro del giovane, nella definizione del naso e della bocca e nell’impostazione del profilo inferiore del volto di entrambi i personaggi.

In fase disegnativa, il pittore ha inoltre provveduto all’impostazione delle linee principali dell’abbigliamento e dei panneggi, così come visibile a esempio lungo il perimetro del colletto della donna e nelle linee che definiscono le pieghe della sua veste bianca, all’altezza del gomito sinistro. Va rilevato che, essendo le misure di questo dipinto inferiori all’originale capitolino, non si può pensare a un disegno derivato da un lucido guida, ripreso direttamente per sovrapposizione all’originale.

Quanti, inoltre, pensassero che la presenza di sottili tracce di disegno sia incompatibile con la pittura di Caravaggio e dei suoi immediati dintorni è stato smentito dalle analisi diagnostiche condotte negli ultimi anni sulla gran parte dei quadri autografi del Merisi, sui quali è stata rilevata spesso non solo qualche incisione da colpi di manico di pennello (non sempre presenti nei suoi dipinti), ma anche tracce di sottile disegno a carboncino o a pennello finissimo.

Le analisi sul dipinto in mostra hanno evidenziato numerosi e importanti pentimenti sopravvenuti nel corso della redazione pittorica. Sulla figura della donna, le modifiche riguardano il turbante bianco, allargato un po’ verso destra e rimpicciolito a sinistra, come rivela la radiografia.

Una ridefinizione dei contorni è rintracciabile anche lungo il profilo esterno della spalla sinistra, originariamente più largo, e lungo quello della spalla destra, inizialmente più stretto, come pure nel contenimento del colletto dalla parte destra e nel profilo del gomito destro, inizialmente più ampio.

Anche nell’area delle mani congiunte dei due personaggi si osservano mutamenti in corso d’opera: l’indice della mano destra della donna era inizialmente più disteso, mentre il mignolo della mano sinistra è stato realizzato dapprima più aperto verso l’esterno e ridefinito nella posizione attuale in un secondo momento.

Anche la figura del giovane presenta diverse e importanti modifiche, specialmente quelle apportate al profilo del cappello, allargato in un secondo momento a sinistra e ridotto a destra, la realizzazione di una piuma centrale (poi abolita nella redazione finale) e una prima posizione della parte sinistra del colletto, inizialmente impostato più a sinistra, nell’area ora occupata dal fondo bruno. Inoltre, sul volto del giovane sia la radiografia sia la riflettografia evidenziano chiaramente lo spostamento verso sinistra e verso l’alto del sopracciglio sinistro, del naso e dell’orecchio sinistro nonché uno spostamento verso l’alto del profilo del mento. (...)

La riflettografia e la radiografia mostrano in modo evidente, poi, la modifica apportata alla mano sinistra del giovane, inizialmente più ampia, con tutte le dita realizzate a profili più squadrati e allungati verso sinistra; il polsino della manica sinistra è stato nettamente spostato verso sinistra invadendo parte dell’incarnato della mano.

Tutti questi pentimenti sollevano una domanda di fondo: quanto sono compatibili così numerosi e così importanti ripensamenti con una copia di un modello da riprodurre? Per certi aspetti, osservando la “Buona Ventura” oggi al Louvre, che è stato recentemente proposto di considerare antecedente alla versione capitolina del medesimo soggetto, sembra che la prima impostazione del dipinto ora in mostra a Illegio, emersa da riflettografia e radiografia, stia quasi a metà strada, o meglio decisamente vicina alla versione del cardinale Del Monte, ma ancora un po’ influenzata da quella di casa Vittrice.

Tutti i pentimenti, poi, più che a una copia, paiono suggerire di essere di fronte a una Zinghara dipinta mentre Caravaggio sta elaborando la versione Del Monte, magari a opera di un suo strettissimo collaboratore e “socio”, o addirittura dallo stesso Caravaggio dopo la versione Vittrice e prima di quella Del Monte, o ancora da un collaboratore sulle pennellate del quale poi Caravaggio stesso interviene: ipotesi certo ardite, ma che non è possibile escludere né su base documentale né alla luce degli altri elementi emersi dalle analisi diagnostiche.

Anche l’analisi della tavolozza, indagata essenzialmente mediante l’analisi di fluorescenza dei raggi X, appare costituita essenzialmente da bianco di piombo e terre, con l’aggiunta – al fine di ottenere il tono rossastro delle gote – di piccole percentuali di cinabro, utilizzato come pigmento principale anche per la realizzazione della fascia rossa della veste della donna.

Pareva, sulla base degli scritti del Bellori, che il cinabro fosse sconosciuto alla tavolozza di Caravaggio, ma le analisi diagnostiche sui suoi dipinti hanno rivelato l’esatto contrario. Esistono poi sulla superficie del dipinto esposto in mostra tracce di bianco di zinco, così come tracce di giallo di cadmio e di verde di cromo, che sono compatibili con reintegrazioni pittoriche successive, confermate dalla fluorescenza indotta dalla radiazione UV, dalla quale si evidenzia inoltre l’intensa fluorescenza verde di una vernice ossidata superficiale, costituita da tre distinti strati di materiale traslucido e amorfo, di sostanza organica di natura resinosa, applicati nel corso del tempo con il ruolo di vernice superficiale.

A rendere ancor più avvincente tutta la questione, è recentissimamente riemersa un’ulteriore versione della “Buona Ventura” dalmontiana, di cui si è data notizia l’11 gennaio scorso nel sito web Finestre sull’arte 17, che parrebbe anch’essa realizzata in epoca prossima all’originale e pressoché fedele dal punto di vista della composizione, di dimensioni vicine all’opera in mostra ad Illegio (92,5 per 120 centimetri).

In quel caso, su una preparazione bruno-rossastra visibile attraverso alcune minutissime lacune della pittura, una tavolozza a base di ocre, bianco di piombo, verderame e lacca rossa oltre al nero, venne stesa a pennellate veloci e molto fluide, in più parti rivelando alcuni bordi risolti con quella tecnica ormai usualmente definita “a risparmio”. Sono percepibili inoltre alcune interessanti tracce di segni incisi nella preparazione, specialmente sul colletto della camicia della zingara. Va però detto che complessivamente questa versione della “Buona Ventura” appare più modesta dell’opera presentata in questa mostra a Illegio.

Riassumendo le conclusioni per intanto possibili, il quadro attualmente in mostra pare un caso di studio di grandissimo interesse, anche a fronte dei dati ricavati dalle accurate indagini diagnostiche. L’opera ha anzitutto le caratteristiche di un dipinto realizzato da un pittore di ottima mano, che conosce le tecniche antiche dei maestri e che ha cognizioni e capacità sufficienti per imitare non soltanto ciò che Caravaggio dipinse, ma anche il suo metodo di lavoro e le sostanze della sua tavolozza. (...)

Se si dovesse cercare tra i pittori di una qualche levatura, allora il candidato più forte sarebbe quel «Francesco detto Cecco del Caravaggio» che compare nelle Considerazioni tra i pittori della classe o “schola” del Caravaggio assieme a «Bartolomeo Manfredi, lo Spagnoletta, lo Spadarino e in parte Carlo Venetiano».

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