Dalla Carnia a Los Angeles: Nicola De Prato tra le stelle di Hollywood

Il 37enne di Tolmezzo lavora negli Usa come direttore della fotografia. «Sul set con Anthony Hopkins, un attore gentilissimo, disponibile e paziente»

Gian Paolo Polesini
Nicola De Prato accanto a Anthony Hopkins
Nicola De Prato accanto a Anthony Hopkins

Carnia-Los Angeles, il viaggio prevede metodici rientri in Patria perché chi è nato al cospetto dei monti sa che ogni tanto deve tornare. C’è un precedente volo su quella tratta di parecchi decenni prima: sull’aereo prese posto Dante Spinotti con la determinazione friulana di conquistare col suo estro la città degli angeli. E, infatti, lui si costruì una fama internazionale illuminando i grandi film statunitensi.

L’ha seguito nell’impresa otto anni fa un talentoso tolmezzino di allora ventinove anni e pure lui nato con la Reflex appesa al collo: Nicola De Prato.

 

Nicola De Prato al lavoro
Nicola De Prato al lavoro

«Mi sono ritrovato spesso al fianco di Dante — ricorda l’artista dell’alto Friuli ormai in pianta stabile nella zona del West Hollywood di L.A. — senza una guida sicura non è semplice muoversi nel caos cinematografico americano. Gli inizi rappresentano una giusta miscellanea di passi individuali uniti ad altri collettivi che seguono una traccia precisa, altrimenti non ne vieni fuori.

Il cinema respira a fatica pure negli States. Non pensate oggi a una Mecca così splendente, è assai più buia rispetto a quella di un tempo. Tanto per farvi capire come funziona il sistema contemporaneo, Francis Ford Coppola, non certo un regista sconosciuto o al debutto, per finanziare e distribuire “Megalopolis” è stato costretto a vendere le sue vigne in California. Il film non ha incassato un granché nel mondo e posso immaginare il bagno di sangue. Ormai girare a Los Angeles è diventato proibitivo, persino la ricca Marvel si è trasferita ad Atlanta».

Uno degli ultimi ciak ha coinvolto Stefano Marchi, un pittore suo compaesano, al quale lei ha sfilato l’anima artistica in un curioso docufilm di un minuto e quaranta.

«L’ho definito “editoriale” proprio perché una spiegazione più appropriata non c’è. Una specie di biglietto da visita da presentare quando si richiedono notizie su Stefano. Ecco, questo sono io, può rispondere lui serenamente mostrando il video. Magari più di qualcuno si chiederà com’è possibile condensare in così poco tempo trentacinque anni di impegno. Un tratto sulla tela a volte è sufficiente a creare una sensazione. Credo accada lo stesso per questo brevissimo film: l’importante è cogliere quel tratto».

Le possiamo chiedere perché Marchi?

«Forse la risposta sta nel titolo: “La violenza dei gesti”. Mi ha sempre affascinato la scelta dei colori densi e vibranti, vien fuori l’inquietudine da quei volti. Stefano ha una capacità unica di calamitare lo sguardo. Ci siamo confrontati brevemente e, quindi, in un pomeriggio carnico senza soste abbiamo raccolto l’essenza di un pensiero d’artista».

È necessario stare in California per fare il suo lavoro?

«Volai in America per sostenere un corso di un anno alla Ucla, l’università californiana, che mi servì per specializzarmi. Nonostante gli anni down della cinematografia acuiti dagli scioperi degli sceneggiatori, se hai una buona storia da raccontare il lavoro non manca. Come direttore della fotografia devo ovviamente aspettare l’incontro giusto con un regista che abbia, appunto, una buona storia da raccontare».

E finora com’è andata?

«Direi che sono stati anni soddisfacenti con qualche ottima esperienza al fianco di Spinotti, oltre a immersioni nella pubblicità. È fondamentale saper fare un po’ di tutto, nel momento giusto la poliedricità è apprezzata».

Qualche titolo?

«Mi piace ricordarne tre: “Where Are You”, l’opera prima del figlio di Dante, un ragazzo davvero capace di andare oltre le convenzioni. Quindi “Fatal” un thriller con location Los Angeles ed “Elyse” diretto dalla moglie di Anthony Hopkins con il marito dall’altra parte della cinepresa».

Difficile interagire con le star? O soltanto con certe star?

«Anthony è di un’educazione inimmaginabile. A volte disegniamo a modo nostro le icone hollywoodiane a seconda dei personaggi che loro interpretano. Nonostante quelli di Hopkins siano a volte crudeli, il due volte premio Oscar è di una carineria unica. Gentilissimo, disponibile, paziente. Ho incamerato un sacco di materia grigia a stargli accanto».

Che ci dice dei suoi esordi?

«Con la mia famiglia abbiamo viaggiato molto: un anno in India e cinque in Pakistan. L’idea di riprendere la vita con una cinepresa è un tarlo col quale sono nato. E così cominciai a inquadrare la musica dei Carnicats e di Doro Gjat, un corto girato fra la Carnia e Parigi per la Redd Army. E mi sono innamorato di questo mestiere». 

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