Caselli e la cruda verità: quanti ostacoli in vita per Falcone e Borsellino

PORDENONE. Il procuratore simbolo della lotta alla mafia e al terrorismo, Gian Carlo Caselli ha presentato il suo libro “Nient’altro che la verità”, la storia vera di un uomo di legge che ha dedicato la propria vita alla giustizia.
Il tono del magistrato è amichevole mentre conversa con Valentina Gasparet: la vita in bunker, i figli cresciuti con gli uomini di scorta, le persone che furono per lui un insegnamento di legalità, i colleghi che ne incitarono il senso di giustizia.
All’improvviso, l’intonazione della voce cambia divenendo secca e lapidaria, profonda. Caselli sta parlando delle ragioni che lo portarono a lasciare la Corte d’Assise di Torino per la Procura di Palermo. Una decisione sofferta.
«Sentivo che dopo la morte di Falcone e Borsellino dovevamo fare tutti qualcosa per arginare la prepotenza mafiosa facendo della resistenza. Capponetto ai funerali di Borsellino aveva detto: “È tutto finito, non c’è più niente da fare”.
Si era convinti che la democrazia stesse per trasformarsi in un narco-stato o qualcosa di terribilmente simile. Voi oggi ricordate Falcone e Borsellino come dei miti, ma la realtà è che essi in vita furono bastonati».
Il giudice Falcone cominciò a morire il giorno in cui fu emessa la decisione del Csm che favorì la nomina di Antonino Meli al suo posto come capo dell'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo.
Una decisione controversa e drammatica che per molti rappresentò l'origine dell’indebolimento del pool antimafia. Le porte gli si chiusero tutte in faccia, da qui la sua decisione - lui che era il successore designato di Antonino Caponnetto in quell'ufficio - di riparare a Roma finché non fu eliminato.
Un viaggio terribile nei ricordi di questo Paese. Poche ore prima, un gruppo di studenti delle scuole elementari aveva incontrato due figure emblematiche di donne magistrato: Giovanna Mullig e Luciana Breggia, quest’ultima autrice del libro “Il giudice alla rovescia”, pronte a parlare di legalità e di risoluzione dei conflitti a misura di bambino.
«C’era una volta un giudice che era stato chiamato in un paese dove i suoi abitanti litigavano in continuazione». Parte da qui la storia che mette a “rovescio” uno stereotipo: non basta fermarsi alle apparenze per ottenere un giudizio equo, ma bisogna sapere ascoltare.
Ed ecco spiegata la figura del “giudice al rovescio”, che non solo applica le regole del diritto ma insegna alle persone a parlarsi per trovare delle buone soluzioni. In fin dei conti – come ha spiegato la Mullig – la cosa più difficile che ci sia. Ma le regole - ha ricordato - nascono prima di tutto dall’esigenza di stare bene e di andare d’accordo.
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