Caterina Percoto, la contessa contadina che aveva a cuore il riscatto femminile

La scrittrice ribelle schierata contro la dominazione austriaca. Seppe interpretare il sentimento della gente di campagna

UDINE. “Contessa contadina” secondo un ossimoro coniato dal coevo giornalista e politico Pacifico Valussi, Caterina Percoto fu in verità figlia, assieme a sei fratelli maschi, di un padre tanto nobile di origine quanto squattrinato e di una madre per almeno la metà plebea, come affermò lei stessa.

Nata a San Lorenzo di Soleschiano, frazione di Manzano, il 19 febbraio del 1812, rimase orfana di padre già nel 1821 e fu mandata a studiare a Udine nell’educandato di Santa Chiara, in un ambiente di rigida disciplina, mancanza di aperture mentali e assenza di calore da cui nacque la sua avversione per l’educazione monacale delle donne, come emerge dalle sue “Memorie del convento”.

Ne uscì nel 1829 per ragioni economiche, dovendo assistere la madre, accudire i numerosi fratelli e poi crescere i nipoti. Secondo un altro indizio, tratto da un racconto autobiografico, intorno al 1828 provò un sentimento d’amore per un giovane di origine ebraica, ostacolato sia dai familiari che dalle suore.

Caterina Percoto rinunciò in seguito a formarsi una propria famiglia e manifestò, nonostante la sua condizione, un carattere poco arrendevole e per nulla accomodante, con una ferma autonomia di pensiero. Sicuramente, trovò una grande risorsa nello studio delle lingue e delle lettere e dei grandi autori classici.

Pare invece dubbia una certa aneddotica, tesa a trasmettere un’immagine modesta e castigata dell’autrice, secondo cui l’esordio letterario è attribuibile ai meriti del suo parroco don Pietro Comelli, che avrebbe inviato di nascosto un suo scritto alla rivista triestina “La Favilla” che lo pubblicò. Il direttore ed editore della rivista, Francesco Dall’Ongaro, dopo aver apprezzato i primi interventi puntigliosi di critica filologica di Caterina Percoto nel 1839, notando le sue competenze la invitò a passare alla narrativa.

Si instaurò così un solido e duraturo rapporto di stima e amicizia, per cui dal 1941 e per alcuni anni “La Favilla” pubblicò varie novelle sino a un anticipo de “Lis Cidulis”, poi raccolte in volume patrocinato dalla rivista stessa nel 1845. Fu l’avvio di una originale letteratura rustica, che diffuse le condizioni delle classi popolari e fu capace di illustrare cuore, viscere e sentimento della povera gente di campagna.

Nel 1847 Caterina Percoto compì un viaggio a Vienna, esperienza non proficua, mentre nell’anno seguente venne scossa dai moti europei di indipendenza dei popoli e in particolare fu testimone oculare dal “fatti di Jalmicco”, dove l’esercito austriaco intervenne con le armi e incendiò quel paese e altri vicini per punire i friulani che si ribellavano alla dominazione austriaca.

Fu una svolta anche letteraria, perché i racconti come “La donna di Osoppo” e “La coltrice nuziale” riscossero successo negli ambienti patriottici. Gli anni successivi, nonostante una salute precaria (scompensi cardiaci, disturbi alla vista, artrite) furono per la scrittrice anche i più movimentati.

Nel 1856 fu a Torino, dove assistette a sedute del Parlamento e soprattutto ebbe modo di conoscere e avviare rapporti letterari con Niccolò Tommaseo, il quale nel 1858 firmò la prefazione ai suoi “Racconti” editi a Firenze da Le Monnier, contribuendo così alla sua notorietà.

Nel viaggio di ritorno sostò per qualche tempo a Milano conoscendo Carlo Tenca che poi accolse suoi scritti nella “Rivista europea”, Carlo Cattaneo e fuggevolmente Ippolito Nievo; nel 1861 a Firenze conobbe Gino Capponi e Raffaele Lambruschini che stimolarono la sua azione pedagogica.

La scrittrice friulana in quegli anni espresse una nuova sensibilità, rispetto ai tempi, nei confronti dell’educazione delle donne, affinché potessero acquisire competenze non relegate ai lavori “femminili” quali ricamo, cucito, sartoria. Nel frattempo, Caterina Percoto scriveva anche in friulano.

La casa editrice fiorentina, preoccupata per la censura austriaca, e la prudenza di Tommaseo consigliarono di selezionare le novelle escludendo sia quelle ove aleggiava lo spirito risorgimentale sia quelle in friulano.

Cinque anni dopo, nel 1863, in un mutato clima politico, seguì a Genova una più ampia raccolta per la casa editrice La donna e la famiglia.

Vi trovarono spazio anche quindici testi friulani, suddivisi in leggende, tradizioni e racconti. Il critico letterario Rienzo Pellegrini ha notato che in Caterina Percoto «le pagine friulane si esauriscono di regola nell’universo contadino, salvaguardato in una sua gelosa autonomia, in frizione implicita con la città; il modulo è formalmente enunciativo e insiste su una apparentemente neutra determinazione topografica e temporale (…) in una sottile strategia persuasiva, che non si esprime con precetti astratti».

Dopo l’annessione delle province venete al Regno d’Italia, Caterina Percoto venne insignita dell’Ordine del merito civile e ricevette un beneficio una tantum che rappresentò una boccata di ossigeno per le sue magre finanze. Nel 1868 rifiutò comprensibilmente l’incarico offertole di direttrice dell’educandato di Santa Chiara, mentre 1871 accettò la nomina ministeriale a ispettrice degli istituti femminili nelle province venete.

Malferma di salute, Caterina Percoto perse, oltre a numerosi familiari, persone a cui era legata come Francesco Dall’Ongaro nel 1873 e Niccolò Tommaseo l’anno seguente. Si spense a San Lorenzo il 15 agosto 1887 e venne sepolta a Udine accanto al poeta Pietro Zorutti.

I suoi scritti trovarono numerose pubblicazioni anche dopo la sua morte e nel 1928 Bindo Chiurlo sistemò graficamente i testi friulani. A lei sono intitolati un liceo umanistico (già istituto magistrale) a Udine, numerose vie e un premio letterario del Comune di Manzano. —




 

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