Cent’anni fa sul San Michele il massacro col gas in trincea

UDINE. C’è una foto che lo mostra mentre guarda perplesso le linee italiane. Ha la macchina fotografica e appesa al collo si vede una maschera anti-gas. È l'immagine di un comandante che deve prendere una decisione gravissima, disumana, e attorno a sé non trova appigli o motivi per evitarla.
Spetta solo a lui compiere un passo da incubo. Quell’uomo è l’arciduca Giuseppe, comandante del settimo corpo d’armata sul fronte dell’Isonzo, il rivale del nostro Luigi Cadorna. Sulle pietraie carsiche da oltre un anno italiani e austro-ungarici si stanno massacrando in una guerra di posizione violenta, brutale, primitiva.
Il nostro nemico è stremato, accusa diecimila perdite al mese, non vede sbocchi, vuole rompere una situazione di stallo che lo sta dissanguando e pensa all’azzardo estremo, all’uso dei gas venefici per sterminare gli italiani, all’inizio sottovalutati e ridicolizzati dai comandi asburgici quanto a capacità militari.
E invece i soldatini giunti da tutta la penisola (da Sardegna, Sicilia, Campania, Puglia) mostrano un incredibile coraggio e un orgoglio inatteso.
Allora l’arciduca ascolta chi lo consiglia di imitare ciò che gli alleati tedeschi hanno già fatto in Belgio nell’aprile del 1915 dove una cittadina, Ypres, diventò tragicamente famosa dando il suo nome alla sostanza letale che aveva annientato interi reparti francesi.
Ma i dubbi sono forti nel comando asburgico tanto che, quando è presentata all’imperatore Francesco Giuseppe, l’idea inizialmente viene respinta.
Sono poi le circostanze a renderla inevitabile: sul fronte dell’Isonzo il generale Cadorna sta per dare la spallata dopo cinque furibonde battaglie e non si vedono alternative tattiche.
Cosí l’arciduca procede, nonostante le perplessità di un generale valoroso come il serbo Svetozar Boroevic e i gesti di dissenso compiuti da molti ufficiali.
Tra essi il generale Sarkàny, comandante ungherese della diciottesima brigata Honved, che chiede di essere esonerato piuttosto che rinunciare ai propri convincimenti sulla natura sleale dell’aggressione chimica.
Sono questi alcuni dei numerosi drammatici retroscena all’origine di quanto avvenne il 29 giugno 1916, cento anni fa, quando sul monte San Michele, fra Gradisca e Gorizia, venne sferrato l’attacco austro-ungarico con il cloro-fosgene che causò la morte di migliaia di uomini sui due fronti, ma senza produrre alcun risultato pratico sul campo di battaglia.
L’ennesima immane strage inutile, scaturita dalla follia di generali che non seppero controllare il mostro bellico costruito con le loro mani. C’è un nuovo libro, documentatissimo, con molte immagini d’epoca, che ricostruisce la genesi e lo svolgimento di quell’assalto nel segno della guerra chimica.
Pubblicato dall’editore Gaspari di Udine, si intitola “Il Quarto Cavaliere. L’apocalisse dell’attacco dei gas sul San Michele”, autori Nicola Persegati e Mitja Juren, con prefazione del professor Gianluca Volpi, che lo presenterà domani, alle 17.30, alla fondazione Carigo di Gorizia.
Tutto accadde all’alba di quel giorno quando l’arciduca fece aprire i rubinetti di tremila bombole contenenti il gas e trasferite di nascosto nelle trincee. Ma fu una decisione affrettata, non tutto andò liscio, il vento cambiò direzione ostacolando i piani che prevedevano di far arrivare sull’Isonzo i genieri con cui varcare il fiume e mettere scompiglio nelle linee italiane.
Per finire i soldati asfissiati e storditi dai gas, vennero usate le mazze ferrate, strumento di guerra primitivo ed effigiato dalla propaganda anti-austriaca attraverso le tavole disegnate da Achille Beltrame per la “Domenica del corriere”, rinfocolando l’odio atavico contro il barbaro invasore.
Fu un giorno choccante per l’Italia, che però resistette sul fronte grazie a tanti piccoli eroi sconosciuti, come il calabrese Quirino Vilardi o il barese Gianmarino Roberti. Nessuno li ha mai citati, appaiono adesso in questo libro, come meritano.
Ma quanti morirono? Difficile dirlo esattamente. Stando alle cifre ufficiali, l’attacco con i gas causò tra gli italiani oltre duemila morti e diecimila asfissiati, molti dei quali deceduti nei giorni successivi per un totale di 6 mila 700.
A causa del bombardamento e del contrattacco, austriaci e ungheresi subirono a loro volta duemila morti, molti intossicati dal loro stesso gas.
In quelle trincee inondate dalla nuvola di veleno fino a poco prima c’era il fante Giuseppe Ungaretti, che con il suo battaglione della brigata Brescia aveva avuto alcuni giorni di riposo, a Mariano.
E lí, quel 29 giugno, scrisse tre poesie de “Il porto sepolto”. Una si intitola “Dannazione”: «Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché bramo Dio?».
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