Chernobyl, Fukushima e Mayak: i disastri ambientali nelle foto di Mittica

UDINE. La testa china sostenuta dallo schienale del pullman che li porterà altrove. Gli occhi chiusi, stanchi. Qualcuno guarda in dietro. Sanno che a Tomioka, la città dalla quale sono in fuga per i permanenti gravi pericoli di radioattività, resterà solo il loro passato, non ci sarà alcun avvenire. E più di recente Venezia, avvolta da quell’inquietante silenzio, scippata della sua vocazione turistica, così sola nel lockdown di marzo come non lo era mai stata prima. Città, sguardi, volti e turbamenti che il fotografo Pierpaolo Mittica cattura e trasforma in monito.
Più che un qui e ora la sua visione vuol essere un qui domani. Perché gli scatti del fotoreporter spilimberghese sono come grandi punti di domanda sul futuro, aprono interrogativi sulle responsabilità che ha l’uomo nei confronti dell’ambiente che lo circonda, si infilano con precisione disarmante nella coscienza e da lì faticano ad andarsene. I disastri ambientali che hanno devastato Chernobyl, Fukushima, Mayak e tante altre realtà rivivono continuamente attraverso gli occhi della gente, di chi è stato costretto a scappare e di chi ha subìto sulla propria pelle le conseguenze di tragedie tra le più significative ed emblematiche della nostra epoca.
Il reportage sul capoluogo veneto, pubblicato dall’Espresso, è l’ultimo dei suoi lavori. «I virus sono sempre più aggressivi proprio a causa dei cambiamenti climatici, che sono la diretta conseguenza – spiega Mittica – dello sfruttamento e della distruzione della natura a opera dell’uomo». Accanto a questo, durante la pandemia lo spilimberghese ha documentato anche i migranti bloccati dal Covid. Quelli che, arrivati a Trieste attraverso la rotta balcanica, non hanno potuto proseguire il viaggio fino in Francia o Germania.
Da più di vent’anni Pierpaolo Mittica si occupa di fotografia e, in particolare, di catastrofi non naturali. Nel 2002 ha immortalato i danni prodotti dall’esplosione del reattore nucleare avvenuta nelle prime ore del 26 aprile 1986 a Chernobyl. Sulla cittadina ucraina dell’allora Unione sovietica il fotoreporter con Alessandro Tesei ha poi realizzato nel 2017 il documentario “The zone road to Chernobyl” che dopo aver girato i festival da qualche settimana è approdato su Prime video. I due si sono introdotti «nella zona di esclusione di Chernobyl, al seguito di un gruppo di “stalker” (come si fanno chiamare i giovani ucraini che entrano illegalmente nella zona vietata, come la città di Pripyat) filmando la città fantasma. Un viaggio di 60 km a piedi, scappando dalla polizia, nel mezzo di una natura selvaggia e contaminata, ma anche un tributo al capolavoro di Tarkovsky “Stalker” o al libro dei fratelli Strugatzky “Picnic sul ciglio della strada”».
Mittica, che fa parte anche del direttivo scientifico del Craf, ha anche ritratto i volti e lo sgomento di chi ha perso tutto subito dopo l’incidente nucleare a Fukushima, in Giappone, nel 2011. E poi Mayak, la cittadina russa piombata negli anni ’50 nell’incubo radioattivo «di cui non si sa quasi nulla».
«Mi sono avvicinato ai temi ambientali – indica Mittica – perché negli anni mi so no accorto che le vere emergenze sono i cambiamenti climatici e l’inquinamento più che le guerre. Il progresso esponenziale e fine a se stesso è pericoloso: è inutile se alla fine distrugge la nostra vita. È come un boomerang, ci torna tutto indietro. Il mio interesse – chiarisce – è di far capire alla gente, attraverso il mio lavoro, i rischi che stanno correndo». Il suo pensiero, è vicino a quello della svedese Greta, che è riuscita a catalizzare l’attenzione dei media, «gridando quello che da 20 anni stanno dicendo scienziati rimasti inascoltati». Le tecnologie sono preziose, ma solo nella misura in cui aiutano a superare vecchie concezioni e non danneggiano l’ambiente che ci accoglie.
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