Chiamiamoli adulti: un viaggio difficile nel mondo dei ragazzi

Il libro dello psichiatra Lancini sulle nuove generazioni. La rete e l’isolamento: ecco dove nascono le difficoltà

Costanza Valdina

Chiamami adulto. Dal titolo, alla chiusura dei capitoli, fino al finale. Matteo Lancini lo ripete come un mantra e lancia un appello a tutti i lettori del suo ultimo saggio: per essere adulti bisogna sintonizzarsi con le nuove generazioni attraverso una relazione autentica. «La risposta è: possiamo stare. Stiamo. Stiamo fermi, stiamo in ascolto, attenti, concentrati, scomodi, con la sensazione di avere appena ricevuto un pugno nello stomaco, ma stiamo», scrive nel suo ultimo libro edito da Raffaello Cortina Editore.

Terzo volume di una trilogia, nel saggio, strepitoso successo editoriale, lo psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro, conduce i lettori in un viaggio difficile nel mondo dei ragazzi in cui forse i più soli e problematici non sono loro, ma gli adulti.

Le nuove generazioni non hanno paura a chiamare per nome tante problematiche della salute mentale: dai problemi alimentari al suicidio. Gli adulti, però, fanno fatica a fare altrettanto. Servirebbe uno sforzo in più?

«Viviamo in una società che evita il tema della sofferenza. Gli adulti faticano ad accennare a temi disturbanti come il suicidio. I fatti di cronaca lo dimostrano: si va alla ricerca di una causa esterna piuttosto che analizzare le scelte individuali. Il colpevole diventa l’agente esterno e dunque il web o il cyberbullo. Un meccanismo che allontana dal riconoscere una realtà evidente: i pensieri suicidari sono sempre più diffusi tra le nuove generazioni. Per un genitore è difficile chiedere a tavola ai propri figli se abbiano mai pensato a togliersi la vita, ma più semplice spegnergli il cellulare, illudendosi di prevenire gesti estremi».

Quindi Internet è un capro espiatorio?

«Nella nostra società Internet è la rappresentazione massima della dissociazione. Viviamo una vita “onlife”, come la definirebbe Luciano Floridi, in cui non c’è più distinzione tra mondo reale e virtuale. A giugno, ad esempio, perquisiremo gli studenti impegnati nell’esame di maturità come fossero dei delinquenti reduci da una rapina. Invece che scusarci, gli impediremo di sperimentare con l’intelligenza artificiale e risorse open internet come fanno abitualmente in altre nazioni. È un modo di togliersi dalla responsabilità: tenere il sistema in piedi per noi stessi, ma impedirne l’accesso ad altri. Questa contraddizione ha spinto i giovani ad immergersi sempre più nella rete che, inevitabilmente, diventa più credibile degli adulti».

Sempre più spesso sentiamo parlare del fenomeno degli hikikomori. Cos’ha il mondo di tanto spaventoso per un ragazzo che decide di ritirarsi?

«Negli anni il ritiro sociale si è trasformato nell’equivalente maschile del disturbo alimentare al femminile. C’è un popolo di adolescenti maschi che si ritira dalla scuola e da esperienze sociali per vergogna o per disagio provocato da un ambiente non organizzato per loro. La scuola italiana è ancora uno spazio in cui lo studente viene sottomesso ed infantilizzato. E gli adulti continuano a riproporre la solita formula “ai miei tempi ci sono passato anche io”. Oggi non conta più sapere le cose a memoria, ma porre domande che portino ad un sapere condiviso. Dovremmo puntare sulla relazione: sostenerli nella costruzione della loro identità, anche digitale, e rispondere ai loro bisogni di riconoscimento e affermazione».

La nuova serie tv Netflix “Adolescence” è in cima alle classifiche. Come giustifichiamo questo successo?

«Il meritato successo si lega alla fedele rappresentazione della società odierna. La vicenda raccontata fa paura perché potrebbe succedere a chiunque di noi. Ogni genitore, guardandola, può immedesimarsi: i figli uccisi potrebbero averceli in casa. Il disagio tocca tutti indifferentemente, a prescindere dalla classe sociale. E, soprattutto, colpisce l’assenza di figure adulte forti: sono i figli a farsi carico delle fragilità dei propri genitori. Ancora una volta troviamo conferma che se non si costruiscono né mantengono relazioni autentiche, i giovani finiranno inevitabilmente a cercare risposte altrove». —

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