I Cinque uomini sulla cassa del morto, c’è una nuova sfida

È uscito il terzo disco della band cividalese: «La vita va vissuta cercando di essere migliori»

Elisa Russo
La copertina del nuovo disco dei Cinque uomini sulla cassa del morto
La copertina del nuovo disco dei Cinque uomini sulla cassa del morto

«Il titolo è “Ioiēn”, da un frammento di Saffo, un concetto molto denso, il bello del greco è che alcune parole racchiudono un significato ampio. “Che io possa andare oltre” ma anche “che io possa andare via”».

Band nata a Cividale nel 2013, sui banchi di scuola, oggi progetto consolidato, i Cinque uomini sulla cassa del morto pubblicano il terzo album, “Ioiēn”. In formazione Francesco Imbriaco (voce, tastiera, chitarra), Alberto Corredig (voce, chitarra, percussioni), Leonardo Duriavig (basso, sintetizzatori, cori), Michele Di Gleria (batteria), Davide Raciti (violino, ukulele, cori), contano oltre 350 concerti e aperture per Tre Allegri Ragazzi Morti, Franz Ferdinand, La Sad: «L’idea del gruppo – spiegano – è stata sempre fondata sul live, che è il centro della nostra attività musicale, la passione per il lavoro discografico è arrivata dopo».

Come descrivereste il vostro percorso?

«Abbiamo seguito una strada molto “pulita”, creandoci da soli tutti i contatti, suonando tanto in giro. Il live ci tiene in vita, ci restituisce passione, energia del pubblico. Forse in contrapposizione con la tendenza attuale, visto che molti giovani puntano solo a far uscire dei singoli da spingere sui social. Anche se le dinamiche di gruppo sono complesse, ci divertiamo molto a suonare. Il bello della musica è che se la vivi in maniera molto spontanea poi ti cattura e costruisce un piccolo mondo attorno a te».

Cosa volete comunicare con “Ioiēn”?

«Che la vita va vissuta cercando di essere ogni giorno meglio. Che io possa andare oltre, quasi un augurio però anche un momento da affrontare con un po’ di timore, perché un passaggio implica sempre delle responsabilità. Lasciarsi qualcosa alle spalle e raggiungere qualcos’altro. Tutto si muove, il pericolo vero è rimanere statici, fossilizzati sulle proprie posizioni».

C’è quindi un filo conduttore che lega i brani?

«Quello della trasformazione, ma vista da punti diversi, ogni brano rappresenta emozioni differenti, c’è la canzone più energica e quella più nostalgica. È inutile parlare di cose che non conosciamo, abbiamo deciso di fare un disco che descrive quello che proviamo. La vita è un tiro alla fune tra passato e futuro, uno dei problemi della nostra generazione è che ha difficoltà di vivere nel presente, siamo sempre con la testa nei progetti a venire oppure rimorsi per il passato. Mentre dovremmo vivere ora».

Che ruolo ha avuto il produttore udinese Luca Moreale?

«Molto importante nell’aiutarci a canalizzare le idee, ha anche mixato e masterizzato».

Il genere? Folk rock?

«Prendiamo spunto da diversi generi. Il folk sicuramente, c’è una forte presenza di strumenti tradizionali come il violino e le chitarre acustiche, poi anche dal rock, dalla musica elettronica o sperimentale. La scrittura dei brani è pop».

Chi sentite affine nel mondo musicale friulano?

«Ormai ci consideriamo vecchia guardia, abbiamo intessuto legami con artisti storici come Doro Gjat, Playa Desnuda, Radio Zastava, i cantautori Alvise Nodale e Massimo Silverio. Manca però una rete di supporto che possa investire nei progetti e spingerli, spesso ci consigliano di trasferirci, ma la nostra musica nasce qui, racconta anche il nostro territorio».

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