Con i parenti dei deportati ad Auschwitz ricordando il dramma di milioni di persone

Dalle cuffiette arrivano le descrizioni degli orrori commessi dai nazisti ad Auschwitz. La giornata è grigia ma non quanto la storia che stiamo ascoltando.
Sugli schermi dei telefonini si susseguono i clic per immortalare quello che agli occhi dei ragazzi sembra un racconto irreale talmente è terribile. Gli sguardi attoniti davanti ai forni crematori parlano più delle atrocità compiute da chi calpestava la vita e l’essere umano: tutto questo è troppo assurdo per essere immaginato, non certo compreso, a 74 anni dalla chiusura del campo di concentramento di Auschwitz.
Tra queste mura tutti dovrebbero entrare una volta nella vita perché se non si respira l’aria di Auschwitz e del campo di sterminio di Birkenau è impossibile comprendere le sofferenze delle migliaia di deportati diventati un numero cancellato dalla faccia della terra.
Non è facile descrivere le emozioni che anche quest’anno hanno provato oltre un centinaio di studenti dei licei Solari-Paschini di Tolmezzo, dell’istituto Linussio, del classico Stellini, dei licei udinesi Marinelli, Copernico, Uccellis, Percoto e Bertoni e del tecnico Deganutti, accompagnati dai professori di Filosofia nella Polonia che prende le distanze dai luoghi dell’orrore creati, scientificamente, dai tedeschi in casa altrui.
I friulani sono tornato nel luogo simbolo della Shoah per commemorare uomini, donne e bambini dissolti nelle camere a gas e finiti, come nei versi di Guccini, nel vento. Da Udine la comitiva è partita una mattina di marzo prima del sorgere del sole: 170 tra studenti, sostenitori e i vertici dell’Associazione nazionale deportati (Aned) distribuiti su tre pullman raggiungono Auschwitz.
A piedi oltrepassato l’ingresso con la scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi, e si trovano in un altro mondo, in un lager, quello che l’uomo non avrebbe mai dovuto creare. Non si è mai abbastanza pronti per visitare questo posto.
Poco importa se durante il viaggio i professori Claudio Freschi dell’Uccellis, Filiberto Battistin del Copernico, Marco Ivancich del Marinelli e Claudio Giachin dello Stellini, non hanno smesso di spiegare la storia. «È accaduto e potrebbe accadere di nuovo», ripete Freschi facendo propria la frase di Primo Levi, leggendo nella storia attuale gli stessi segnali di allarme che portarono alle deportazioni. «Esco da questo viaggio – avrà modo di aggiungere – con la convinzione che la politica deve fondarsi sui diritti dell’uomo, sulla cooperazione internazionale e sull’Europa».
Giachin precisa che «il clima di diffuso antisemitismo nell’Europa degli anni Trenta e lo scoppio del secondo conflitto mondiale hanno reso possibile lo sterminio di milioni di ebrei da parte del nazismo. Un ruolo attivo lo hanno avuto anche le formazioni di estrema destra presenti nei paesi dell’Europa orientale e occidentale, sia i collaborazionisti dei territori dell’Urss conquistati dalla Wehrmacht». E se Battistin lega la deportazione politica alla Resistenza che coinvolse le nazioni occupate e che gettò il seme dell’Europa unita, Ivancich e il presidente dell’Aned, Marco Balestra, leggono i diari lasciati dalla manciata di giovani cattolici, tedeschi, che diede vita al gruppo “La rosa bianca”.
L’eco di quelle parole non lascia indifferenti neppure i parenti dei deportati che ogni anno vanno in pellegrinaggio nel luogo abitato fino alla fine dai loro padri, dalle loro madri e dai loro fratelli negli incubi notturni. Anche sotto il cielo grigio di Birkenau l’eco di quelle storie torna alla mente di tutti, lo sguardo si perde nella distesa di baracche per fermarsi davanti alle latrine segno tangibile della non vita. Qui la commozione si trattiene a stento: davanti al monumento alle vittime gli occhi si riempiono di lacrime.
Gli studenti srotolano lo striscione con la scritta «pace», l’unica parola che valga la pena di pronunciare in questo posto. Il presidente dell’Aned depone una corona e se ne va con il nodo alla gola che gli impedisce di parlare, i familiari lanciano un bacio verso la grande lapide per poi affermare con determinazione «non veniteci a dire che guerra è guerra perché certi orrori non si possono perdonare».
Intanto è spuntato il sole, il corteo si disperde, qualche rosa rossa resta sulle lapidi e i pensieri volano nell’aria rarefatta che invita alla riflessione. Ognuno raccoglie i propri pensieri e si avvia verso l’uscita ripercorrendo all’incontrario il binario che conduceva alla morte i deportati stipati nei treni. Oggi restano le immagini di volti scavati, di cumuli di capelli non ancora intrecciati nelle trame dei tessuti, degli occhiali, delle spazzole, delle tante facce impaurite appese alle pareti. «Continuare a ricordare è la più grande sconfitta dei nazisti», diranno gli studenti esponendo le loro riflessioni su un viaggio che si porteranno dentro per sempre.
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