Curiosa e ospitale, Pechino si coccola il mondo straniero

Marco Polo, la parole magica per far capire che sei italiano. E per strada tutti col sorriso ti chiedono se hai mangiato. La seconda puntata del viaggio di Tullio Avoledo in Cina

La colazione, negli hotel cinesi, è una cosa strana. Se dalle nostre parti siete disturbati dalla vista di turisti anglosassoni che si riempiono il piatto di bacon, uova strapazzate e salsicce alle sette del mattino, immaginate di sedere in mezzo a degli orientali (ah, prima che mi dimentichi di dirlo: i cinesi sono gialli solo nei fumetti di Tintin) che mangiano involtini fritti, ravioli al vapore e spaghetti di soia.

Tenete poi presente che hanno l’abitudine di parlare a bocca piena, con effetti non sempre piacevoli. Un’altra cosa che potreste scoprire è che quelli che sembrano croissant hanno l’aspetto di croissant ma in realtà sono fritti e sanno di crostolo.

«Vi ricordate quel romanzo in cui gli alieni imitano il cibo terrestre, ma dato che l’hanno visto solo in televisione non hanno idea di che sapore debba avere?» ho chiesto, a una tavolata di scrittori assonnati. Ma nessuno di loro lo conosceva, per cui può darsi che me lo sia solo sognato.

Nella nuova Pechino tra robot di sei metri e acqua non potabile


«Questi croissant li hanno fatti quegli alieni» ho aggiunto. Ma gli altri si sono limitati ad annuire, col capo chino sui loro piatti pieni di bacon, uova strapazzate e salsicce...

Dato che quello era per me il gran giorno, mi sentivo nervoso come un furetto nella stagione degli amori. La cerimonia inaugurale della convention mi è sembrata un’ottima occasione per calmare l’ansia.

Dopo aver passato dei controlli di sicurezza piuttosto pesanti siamo entrati nell’auditorium. L’orchestra non c’era più, e al posto dei tavoli c’erano file su file ordinate di sedie. Sono stato scortato al mio posto d’onore in seconda fila. Mi aspettavo una cosa all’italiana, con interventi di assessori e politici vari. Il numero di auto di rappresentanza governative parcheggiate davanti all’auditorium faceva temere il peggio. In realtà quella parte della cerimonia è stata rapida e indolore.

Le scenografie erano impeccabili, la regia perfetta. Ragazzi in divisa e guanti bianchi spostavano e disponevano millimetricamente sul palco leggii (in realtà del tutto inutili) dietro ai quali prendevano posto i funzionari, per non pronunciare una sillaba e scendere tre minuti dopo.

I leggii venivano immediatamente portati via e sostituiti con sedie sulle quali si sono accomodati due premi Nobel per la fisica e Liu Cixin, il top gun cinese della fantascienza. La colonna sonora era quella di The Wandering Earth, tratto da un romanzo di Liu, il film blockbuster del 2019, un kolossal sul salvataggio della Terra da parte dei cinesi.

Della cerimonia mi ha impressionato la precisione della regia e la coreografia, nonché la qualità pazzesca dell’enorme schermo su cui venivano proiettate le immagini delle conquiste cinesi nello spazio e i grafici coi trend di mercato della fantascienza in Cina e all’estero.

Mettiamola così: se fossi uno scrittore di fantascienza cinese verserei subito una caparra per una Ferrari. È un mercato in continua ascesa, sponsorizzato e finanziato dal governo. Il futuro non fa paura, ai cinesi: anzi, ne hanno fame e sete.

Dopo pranzo, alle 15, sono finalmente salito sul palco per fare il mio intervento. Salirci dopo Robert Sawyer non è stato facile. Gli scrittori anglosassoni sono bestie da palcoscenico, capaci di incantare anche un serpente cieco e sordomuto. Inoltre, cinque minuti prima di prendere posto dietro il leggio, mi hanno detto che i minuti a mia disposizione non erano in realtà 30 ma 20, più dieci per le domande del pubblico...

Con buona pace del tempo passato a limare il mio intervento per contenerlo esattamente in 30 minuti…

Panico puro. Ma ho fatto comunque del mio meglio, anche se penso che alla fine della mia cavalcata al galoppo in un inglese tutt’altro che impeccabile le traduttrici simultanee siano andate in tilt. Nella mia esposizione di 20 minuti esatti (l’ultima parola è caduta allo scoccare del metaforico gong) ho cercato di spiegare perché un friulano nato nel 1957 crede nel futuro, “il solo posto che tutti dovremo per forza visitare”, e cosa può fare la scrittura per ispirare le masse e far progredire la scienza.

Ho mostrato Valvasone, il paese in cui sono nato, e poi luoghi di tutto il pianeta in cui erano nate le altre persone presenti in sala. E poi le stelle. Le stelle... Le meravigliose foto che Luca Parmitano ci invia dalla stazione spaziale internazionale.

Ho mostrato gli errori del passato - la disastrosa era degli Space Shuttle - e le promesse non mantenute, come i razzi Energya e la navetta Buran della defunta Unione Sovietica. Ho spiegato perché un bambino nato nell’anno dello Sputnik crede ancora, 60 anni dopo, che la nostra casa di domani sia lassù, fra le stelle, ma che non per questo dobbiamo trascurare il meraviglioso pianeta che ci ha dato la vita. Ho parlato di come l’umanità possa raggiungere qualunque risultato, se solo decide di metterci la volontà.

Quella mezz’ora è stata come un sogno. Settimane di preparazione, la fatica di un lungo viaggio, e ora ero lì, a parlare del futuro a degli sconosciuti, a ottomila chilometri da casa. L’applauso finale, sulla foto di una giovane astronauta (anzi: taikonauta) cinese ha sciolto il mio groviglio di ansie e pensieri.

Dopo i saluti di commiato e le foto di gruppo sono uscito e ho camminato, molto più leggero, fra gli stand e i padiglioni dei libri, per allentare la tensione. Qualche bambino cinese mi ha detto “gimme five”, e io l’ho accontentato, insegnandogli come si fa correttamente in uno dei nostri ghetti occidentali.

Ora era il momento di pensare al prossimo appuntamento, di lì a tre giorni: la mia conferenza all’Istituto italiano di cultura, presso l’ambasciata italiana.

Gli esami non finiscono mai…

Avevo sempre sognato di poter dire a un tassista “mi porti all’ambasciata italiana”, una cosa tipo film di spie. Quel momento arriva alle undici di mattina di lunedì 4 novembre. A colazione ho salutato i miei nuovi amici scrittori, ci siamo scambiati indirizzi e numeri di telefono, io sempre più imbarazzato per non aver fatto stampare qualche biglietto da visita. Quello di Bob è bellissimo. Dice: Robert J. Sawyer, Science Fiction Writer, Best-Novel Hugo and Nebula Award Winner.

Eppure me l’avevano detto in tutte le salse, che in Cina è quasi obbligatorio scambiarseli. È che non so decidermi su cosa scriverci sopra.

Il taxi si allontana da questa zona periferica che su Google maps appare ancora come una distesa di terra incolta e mi porta nuovamente sulla tangenziale, che finora è più o meno il 90% di quello che ho visto della capitale cinese. Il viaggio è lungo. L’ambasciata italiana è nel quartiere diplomatico di Sanlitun, all’altro capo della città. Rimango impressionato dalla rapidità e abilità con cui viene programmata sin nei minimi dettagli la mia conferenza di mercoledì, come se fosse lo “Sbarco in Normandia”. Butto uno sguardo alla targa sul cancello, per rassicurarmi di non essere finito per sbaglio nell’ambasciata svizzera, o in quella tedesca. Ma no, è proprio l’ambasciata italiana. Incredibile.

La sala in cui dovrò tenere l’incontro mi spaventa, perché è molto grande, ma mi assicurano che si riempirà. Oltretutto la cosa sarà trasmessa in streaming e pubblicizzata su WeChat, e seguita quindi da molte più persone di quelle presenti in sala. WeChat (che per qualche motivo non sono mai riuscito a installare) è l’equivalente cinese del nostro WhatsApp. La “Grande muraglia informatica” cinese blocca gran parte dei nostri social occidentali, e persino Wikipedia.

Rientro molto tranquillizzato nel mio albergo, il Great Wall Sheraton, uno dei primi hotel per occidentali aperti a Pechino, se non addirittura il primo. In effetti in camera ho una poltrona beige a righe che sembra perfetta per la scenografia dell’opera Nixon in China di John Adams. La vista dalla finestra all’undicesimo piano è incredibile, un paesaggio di grattacieli che emergono svettanti dalla nebbia.

Il realtà non è nebbia, ma smog. Me ne rendo conto passeggiando per il quartiere, all’imbrunire, in cerca di un locale per la cena (l’ho già detto, che a Pechino si mangia bene e a pochi euro dappertutto?), fra botteghe affollate e negozi di frutta e verdura che sembrano cartoline, per l’ordine e il nitore con cui sono esposte le loro variopinte merci.

Faccio lo slalom tra scooter elettrici, biciclette e auto, senza mai sentirmi in pericolo se non per via dei gas di scarico. Dicono che respirare un giorno a Pechino sia come fumarsi 40 sigarette. Penso sia un’esagerazione, ma sicuramente resta una città molto inquinata. D’altra parte provate a mettere in una conca italiana, o da qualsiasi altra parte del mondo, 24 milioni di abitanti, molti dei quali dotati di auto, e vediamo cosa succede. L’impressione è che i cinesi stiano facendo molto, per migliorare l’aria della città.

Auguro loro di avere successo, perché Pechino è davvero bella. Mi rendo conto che quando sull’invito avevano parlato di “autunno dorato” non esageravano. Il colore delle foglie è davvero simile a quello dell’oro. Ho fotografato quasi più gli alberi che i monumenti, da tanto erano belli. In due giorni ho macinato decine di chilometri in taxi e a piedi, perché Pechino, come direbbe il solito Forrest Gump, è “davvero grandina”.

Confesso di aver sudato freddo quando ho preso il taxi per farmi portare in piazza Tian’anmen. Guardavo il tassametro correre e i minuti passare - venti, trenta, quaranta... - e contavo mentalmente gli yuan che avevo in tasca (la moneta cinese in realtà si chiamerebbe renminbi, “valuta del popolo”, ma tutti lì la chiamano yuan). Poi, arrivati sulla piazza, il tassista ha stampato la ricevuta e ho visto che la corsa mi era costata meno di sei euro. Inutile dire che il taxi è diventato il mio mezzo di trasporto preferito, nei giorni successivi.

Con i tassisti, come con i negozianti anche del più piccolo locale, puoi capirti perché tutti usano una app per cellulare che traduce le tue parole in cinese, e viceversa. Ho dialogato così con un tassista, il giorno dopo, e devo confessare che la cosa mi sembrava un po’ da fantascienza. Però funzionava. Come tutto, in questa megalopoli in cui ti chiedi quanto bravi sono già solo a dar da mangiare e bere ogni giorno a più di un terzo degli abitanti dell’Italia.

Da bravo turista, nei miei due giorni liberi ho visitato in lungo in largo Pechino, o Beijing. Dalla Città Proibita al Tempio dei Lama al Tempio del Cielo. Ho visitato la strana astronave metallica del nuovo Teatro dell’Opera, e il Museo Nazionale, coi suoi tesori archeologici così diversi dai nostri da sembrare a volte alieni. Ho visto incredulo, e più tardi l’ho verificato sulle fotografie, che in una piazza immensa come Tian’anmen non c’era per terra una sola cartina o cicca di sigaretta.

Ho camminato per vicoli scuri, e attraversato quartieri dimessi, senza mai temere per la mia sicurezza. Nel Tempio di Confucio mi sono seduto in mezzo a scolari e turisti cinesi per assistere a uno spettacolo, trovandomi assediato dalla curiosità e dalle domande: da dove vieni? Ti piace la cucina cinese?

Sì, mi piace molto. Anche lo street food, gli spiedini presi per pochi centesimi dal venditore ambulante in una stradina malandata dell’antico Quartiere delle Legazioni.

Parlando con la gente ho scoperto che le parole “Venezia” e “Marco Polo” sono formule magiche per far capire che vieni dall’Italia. Ho trovato bella questa curiosità verso lo straniero, una cosa che dalle nostre parti abbiamo purtroppo dimenticato. E bello il modo in cui un anziano per strada ti saluta, “ni-hao”, e poi ti chiede nel suo inglese incerto “da dove vieni?”.

Un’altra forma di saluto, lì, è “ni-chi-fan-le-ma”, “hai mangiato?” e anche questa cosa la trovo bella, preoccuparsi se l’altro ha mangiato; mi parla di un’epoca antica che un tempo era anche la nostra.

Se dovessi dire cosa mi porto dentro, da questo viaggio, non è tanto, o non solo, la bellezza dei monumenti o l’incredibile skyline dei grattacieli moderni, ma la curiosità e le gentilezza delle persone, la loro apertura. Praticano virtù, come l’ospitalità e l’interesse verso lo straniero, che noi abbiamo dimenticato. Non costruiscono muri, ma ponti e strade. Al di là dei grattacieli che nascono di giorno in giorno, i cinesi mi sembra stiano costruendo dentro di sé il loro futuro, che inevitabilmente sarà anche il nostro.

La mia ultima sera a Pechino, nella sala dell’Istituto italiano di cultura, parlo davanti a un centinaio di persone, quasi tutti cinesi, quasi tutti giovani. Ci sono diverse coppie miste, italiani che hanno sposato una cinese, ma più spesso il contrario. Anche le italiane, quando ridono, si mettono la mano davanti alla bocca come le cinesi. La traduttrice (cinese, ma si fa chiamare Gioia) è bravissima, ed è rilassante poter finalmente parlare nella mia lingua. Le ambasciate servono anche a questo.

In un’ora scarsa cerco di raccontare tutto quello che posso sul futuro, e sul perché è così importante, e su come l’architettura influenzi il nostro modo di vivere e di pensare. Rimango colpito dal numero e dalla qualità delle domande del pubblico. E poi c’è una domanda che mi sorprende: “In Italia ho visto che ci sono molte statue. Servono per proteggere le case e i palazzi dagli influssi cattivi?”

Le domande si susseguono, sforiamo il tempo previsto, tanto che alla fine non troviamo un ristorante disposto a servirci (a Pechino, durante la settimana, sembra che non ci sia modo di cenare fuori casa dopo le 22.30) e la mia ultima cena pechinese mi viene servita in camera, ed è un sandwich con contorno di insalata cruda e una macedonia. L’ultimo giorno si può rischiare, mi dico. Invece è tutto buonissimo e fresco, e non mi crea problemi di nessun tipo. L’ultimo test è superato.

Posso vivere a Beijing. Voglio tornarci.

Mentre l’aereo, inclinando l’ala, mi concede l’inaspettata visione di un tratto della grande muraglia, ripenso alle tante persone che ho incontrato, in questo viaggio. Persone i cui nomi a volte ho dimenticato, ma la cui gentilezza e curiosità mi sono rimaste nel cuore. Persone come il professor Wu Yan, o la giovane e timida Shi Zhen, che mi ha accolto all’arrivo all’aeroporto e mi ha fatto da guida nei giorni della convention, e Fan Zhang, per il quale prevedo un brillante futuro. E gli altri di cui non ricordo il nome ma che spero un giorno o all’altro di poter incontrare di nuovo. Mi è piaciuto conoscere persone per cui il futuro è una promessa e non una minaccia. A volte la vita ti riserva doni inattesi.

Prima di chiudere gli occhi per affrontare il lungo volo del ritorno ho ricordato uno dei brindisi che ho fatto alla cena di gala, quando ho detto alla traduttrice “dica al signor ministro che mio padre, prima di morire, aveva piantato degli alberi da frutto.” La traduttrice ha sussurrato delle parole in cinese all’orecchio del ministro, che ha annuito. “Gli dica che mio padre era molto malato. Sapeva che non avrebbe mai colto i frutti di quegli alberi. Lui non li piantava per sé, ma per i figli dei suoi figli. Allo stesso modo noi oggi, con le nostre parole, abbiamo piantato degli alberi di conoscenza e di speranza. Possano i miei nipoti, e i suoi, godere dei frutti di quegli alberi, insieme, nella prosperità e nella pace.”

Abbiamo fatto toccare i nostri bicchieri, il mio rispettosamente più basso. Il ministro ha fatto un leggero inchino, un sorriso. Ha annuito. “Gonbei.” “Gonbei, signor ministro.”

L’importante, mi sono detto prima di chiudere gli occhi sull’aereo, quello che resta, non è ciò che raccogliamo, ma quello che riusciamo a seminare.

(2 - fine)




 

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