Dal linciaggio di Solaro alla strage di Schio: alla fine della guerra scoppia la resa dei conti

I fascisti uccisi per vendetta dai partigiani nei giorni convulsi della Liberazione e nei mesi successivi all’aprile 1945 furono 300 mila. Una cifra equivalente a due terzi di tutte le vittime italiane, militari e civili, del secondo conflitto mondiale. La storia di questa “panzana”, l’epiteto come si vedrà non è usato a caso, è utile per riflettere sugli strascichi e le vendette che ebbero luogo durante e subito dopo le fasi finali della guerra, un episodio non secondario in quella che fu anche una guerra civile, non solo una guerra di liberazione. Anche da fenomeni come questi, infatti, dipesero orientamenti politici, schieramenti ideologici, visioni contrapposte e inconciliabili del nostro passato che influenzarono, e influenzano ancora, la nostra vita pubblica.
La notizia dei 300 mila morti venne battuta nel febbraio 1946 dall’agenzia di stampa “Italia oggi”, che indicava come fonte una documentazione raccolta dal Ministero dell’Interno. In realtà, al Viminale, dove sedeva ad interim Alcide De Gasperi, le informazioni parlavano di una cifra tra gli 8 e i 10 mila scomparsi, per una parte dei quali, peraltro, le cause di morte erano dubbie.
Una dimensione del fenomeno, dunque, completamente diversa che non ostacolò tuttavia la fortuna di quella esagerazione, come spiega il capitolo dedicato alla “Guerra delle cifre” dal volume di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli Storia della Resistenza, edito da Laterza: una preziosa silloge delle più aggiornate ricerche e interpretazioni di questo passaggio decisivo della storia d’Italia.
Il dato scandaloso dei 300 mila uccisi dai partigiani comunisti fu utilizzato ampiamente nel corso dei comizi del Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante, l’erede politico della Repubblica Sociale, tanto da generare nel 1952 un intervento parlamentare del ministro dell’Interno Mario Scelba. Questi riferiva alla Camera che i morti “per motivi politici” dopo la liberazione erano stati, secondo gli accertamenti ufficiali, “solo” 1.732. Proprio come in una commedia di Steno di quelle che andavano molto in quegli anni, tuttavia, nel proseguo notturno della seduta parlamentare l’onorevole Guglielmo Giannini se ne venne fuori con la rivelazione: «Fui io a diffondere la notizia dei 300 mila morti».
La sparata, spiegò il direttore del giornale l’Uomo Qualunque nonché leader del partito omonimo che era giunto ad avere il 5% nelle elezioni del 1948, aveva fruttato alla sua testata 800 mila copie vendute, a testimonianza del fatto, a suo dire, che gli elettori crescono vertiginosamente di numero quando i giornali somministrano loro delle panzane ad effetto.
È fin troppo facile dire che le rese violente dei conti sono fenomeni tipici delle guerre civili e che in Italia la scia di sangue ebbe una dimensione tutto sommato contenuta rispetto a quanto accadde dove i regimi collaborazionisti avevano raccolto un seguito maggiore della Repubblica di Salò, ad esempio nell’Europa centro-orientale ed orientale.
La storiografia italiana è giunta a riguardo ad alcuni punti fermi. Vi fu una violenza insurrezionale dei giorni della liberazione, una violenza inerziale nei primi mesi successivi e quindi una violenza residuale e di classe che durò fino all’autunno 1946. I morti, secondo le ricerche più accreditate, sono stati tra i 9 e i 10 mila, anche se è spesso difficile distinguere se si trattasse di fascisti riconosciuti, di delatori o di semplici fiancheggiatori.
Vi furono esecuzioni sommarie di personaggi in vista, come l’impiccagione-linciaggio a Torino di Giuseppe Solaro, l’ultimo segretario del Partito fascista repubblicano piemontese, e il linciaggio di paese di Adalgisa Antonia Carlesimo, una ragazza di venticinque anni che a Trasacco negli Abruzzi venne considerata come responsabile dell’uccisione di cinque allevatori incolpati di non avere ceduto bestiame ai tedeschi.
Un atto di vendetta collettivo che la Corte d’Assise dell’Aquila giudicò folle e senza motivo. Ma anche rese dei conti interne al partigianato, come l’assassinio da parte dei suoi stessi compagni del comunista Luigi Canali, il “capitano Neri”, che partecipò alla fucilazione di Mussolini e la cui vicenda è stata rievocata in mille ricostruzioni dell’”oro di Dongo”.
Tra i casi più eclatanti, e che fanno ancora discutere, vi è la strage di Schio, avvenuta nel luglio 1945, quando 54 fascisti in attesa di processo detenuti nel carcere della cittadina furono assassinati a colpi di mitra da ex-partigiani locali. Se costoro fossero sconvolti per l’arrivo della notizia che 14 compaesani erano morti nel campo di sterminio di Mathausen o non piuttosto esasperati per una giustizia che tardava ad arrivare, è ancora da stabilire. Poi il famigerato “triangolo rosso” dell’Emilia dove i regolamenti dei conti colpirono, oltre a fascisti, esponenti moderati del Cln, sacerdoti e semplici agricoltori nel quadro di un conflitto contadino di lunga durata.
Ambivalente il comportamento del Pci: da un lato si arroccò nella giustificazione delle violenze come reazione incontrollabile ai crimini fascisti, dall’altra cercò di scaricare le colpe su provocatori di destra o di estrema sinistra o su singoli militanti che per fede di partito si assunsero anche responsabilità di altri.
Il “così succede al termine di ogni guerra” del Pci, che si prese la maggior parte del merito e delle responsabilità della lotta resistenziale, non aiutò a costruire una visione aperta di questo difficile capitolo della nostra storia: una ritrosia a fare i conti apertamente con la resa dei conti che contribuì, dopo la caduta del comunismo sovietico, negli anni Novanta, a scatenate le strumentalizzazioni più bieche, i revisionismi a scopo commerciale o preventivo. —
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto