Dentro i numeri della pandemia: una luce sui misteri della “Spagnola”

L’epidemia di influenza “Spagnola” ha un’origine ancora incerta, in Francia, Cina o negli Usa. Fu una delle più letali nella storia dell’umanità: si stima abbia ucciso circa 50 milioni di persone su una popolazione mondiale di due miliardi di anime. Alessio Fornasin, professore di Demografia presso l’Università di Udine, ha pubblicato assieme ai colleghi Marco Breschi e Matteo Manfredini una nuova stima del numero dei deceduti in Italia per la pandemia influenzale, provando a dare risposta ad alcuni problemi legati allo studio di questa malattia, che è stata sostanzialmente dimenticata nella memoria del Novecento.
Una delle difficoltà del calcolo dei morti di “Spagnola” in Italia consiste nel fatto che, per quanto riguarda la mortalità maschile, questa si sovrappose alla mortalità bellica. La “spagnola” colpì infatti in una prima ondata, non molto letale, nella primavera del 1918, quando le truppe erano ancora in trincea e nei campi di prigionia; infierì quindi con una seconda ondata estremamente letale nell’autunno del 1918, nelle settimane in cui il conflitto ebbe termine; ebbe infine una terza ondata nella primavera del 1919, che si prolungò con una serie di strascichi.
A differenza delle epidemie di virus H1N1 precedenti e che seguirono, colpì soprattutto gli adulti tra i 20 e i 40 anni, quindi le fasce d’età direttamente coinvolte nel conflitto.
La grande disponibilità di fonti sui decessi dei soldati, però, invece di favorire una migliore comprensione della pandemia l’ha complicata. Fornasin aveva già rivisto le cifre dei morti della prima guerra mondiale, confrontando l’“Albo d’oro dei caduti in guerra”, la gigantesca opera italiana in 28 volumi, edita tra 1926 e 1964, che riporta i nomi di tutti coloro che sono morti in qualsiasi contesto bellico, con altre serie storiche. Questo gli aveva permesso di ridurre i morti italiani della Prima guerra mondiale a 560 mila: 90 mila in meno di quanti abbiamo dichiarato (avendo dati solo parziali a disposizione) nel corso degli incontri del trattato di pace di Versailles.
Analizzando il processo di registrazione civile e militare dei morti in quei due difficili anni, l’equipe di demografi è potuta arrivare a una stima più precisa dei decessi per influenza, che sarebbero stati 466 mila nell’intero periodo 1918-1920.
Un passo in avanti considerevole, rispetto alla forbice delle stime precedenti che andava da 350 a 600 mila deceduti.
Lo studio conferma che la mortalità ebbe il suo picco nella classe d’età 25-29 anni e che la “Spagnola” uccise molte più donne che uomini, molti dei quali, se così si può dire, non poterono ammalarsi perché erano già morti in guerra.
L’ultimo aspetto considerato dai tre studiosi riguarda la pulsione mensile della malattia. L’ondata letale dell’autunno 1918 risulta infatti chiaramente ma stranamente divisa in due picchi, uno di metà ottobre 1918, dopo il quale i decessi crollarono, e uno di metà novembre dello stesso anno.
Il punto più basso fu in corrispondenza del 4 novembre, l’armistizio. Cosa deve essere successo? Dopo l’esplosione di ottobre dell’epidemia, che fece centinaia di migliaia di morti, la mortalità stava velocemente scendendo, quando arrivarono a casa masse di prigionieri lasciati liberi.
Come già i contemporanei avevano osservato, senza riuscire a darsi una risposta, questi non erano stati particolarmente colpiti dall’influenza nei campi di prigionia austriaci e tedeschi dove le loro condizioni erano state assolutamente drammatiche e nonostante il virus serpeggiasse anche Oltralpe. Nel corso del lungo viaggio per tornare a casa e appena giunti a casa, invece, quando dunque le loro condizioni fisiche stavano migliorando, molti si ammalarono e morirono. Come onestamente riconoscono gli studiosi si tratta di un problema per il quale non si hanno attualmente spiegazioni: molto dobbiamo ancora conoscere sulla “Spagnola” e la sua storia rifiuta facili conclusioni. —
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