Emanuele Salce: «Quelle serate a tavola assieme a Gassman, Tognazzi e Villaggio»
Il regista e attore sarà ospite giovedì del Kinemax a Gorizia per celebrare il centenario di Ugo e Vittorio

Certo che il 1922 è stato un anno artisticamente generoso: nacquero Luciano Salce, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Pier Paolo Pasolini, Luigi Squarzina e Adolfo Celi.
Il 32° festival “Castello di Gorizia”.
Premio Francesco Macedonio (organizzazione terzo teatro) per la commemorazione del centenario, anche se appena appena superato, ha scelto due grandi da celebrare — Ugo&Vittorio — sfilandoli dal gruppo di immortali e fidandosi senza incertezze del miglior Virgilio possibile: Emanuele Salce, regista e attore, figlio di Luciano che visse l’irripetibile stagione del cinema dalla parte più intima dell’osservatorio.
L’appuntamento con Salce sarà per giovedì 9, alle 20.30, al Kinemax di Gorizia. Seguirà la proiezione di La voglia matta.
Quando s’iscrisse al Centro sperimentale di Roma con quale spirito affrontò l’ammissione?
«Partecipai per ripicca. In famiglia mi sconsigliarono quella strada: “intanto non è un mestiere e, comunque, tu non sei il tipo che si applica”, mi dissero candidamente e io, a quel punto, ci provai in segreto e passai la prova al primo colpo con altri cinque».
Lei ebbe la fortuna di iniziare la sua avventura terrena coccolato dal miglior spettacolo italiano.
«Vissi con mio padre fino a un anno e mezzo. Poi seguii mamma che si fidanzò con Vittorio Gassman. Alle volte s’illumina qualche ricordo. Che spesso confondo con fotografie sistemate sui mobili di casa. Vedevo papà nei fine settimana. I divi di allora non erano genitori molto disponibili e non soltanto il mio. Non ti aiutavano coi compiti e cose così. Un giorno Luciano venne a prendermi a scuola e tutti a commentare: “Hai visto c’è Salce quello famoso”. Diventai ragazzo frequentando di più tate e cameriere».
In men che non si dica lei finì dietro la cinepresa al fianco di Risi — padre e figlio — e di Ettore Scola. Ma non solo.
«Per tenermi occupato. Con Dino mi divertivo, ridevamo tanto assieme. E con Ettore, a volte, mi meravigliavo come simili dei pagani dedicassero del tempo proprio a me. L’occasione di “viverli” in privato fu unica e solamente dopo compresi la fortuna che il destino mi riservò».
Che male c’è se anticipiamo qualcosina della serata del 9?
«Credo nulla».
Ecco, allora: Ugo e Vittorio. Più gli altri “mostri sacri”, volendo.
«Loro furono due personaggi agli opposti. Per struttura e per approccio alla vita. Uno godereccio, libertino e gaudente — Ugo — e l’altro serio, insicuro, aggressivo. Tognazzi fu un attore di pancia, il più straordinario, il più vero, il più autentico, non c’è partita. Manfredi si rivelò tecnicamente il più bravo, Gassman interpretò l’artista “totale”: carro armato, fucile e bombe tutto assieme. Il Vittorio dell’ultimo decennio fu assalito dalla depressione e dall’insistente gesto di guardarsi indietro, travolto dai sensi di colpa. E fu così che Gassman scoprì Vittorio, offrendo a tutti noi finalmente la sua parte umana e mortale. Ugo seppe ballare nei sobborghi dell’anima, affrontando ruoli impossibili con una naturalezza incredibile. Lui non recitava, comunicava. Marcello era bravissimo, ma restava pur sempre Mastroianni. Sordi è sempre stato lui. Più Sordi che attore».
Emanuele, tornerebbe indietro per riassaporare qualche momento del più incredibile periodo della storia del cinema?
«Pagherei, e pure bene, per sedermi adesso, da adulto, attorno al tavolo di casa di quand’ero bambino assieme a Gassman, Tognazzi, Salce e Villaggio».
A proposito di Villaggio. Suo padre diresse i primi due film della saga di Fantozzi. Lei aveva nove anni nel 1975.
«Ho un ricordo e molto nitido. Fui prelevato a scuola da un autista che mi portò sul set a Bracciano dove stavano girando la scena della martellata sul dito in campeggio. Quel fine settimana toccò a mio padre stare con me. Lui ben sapendo che ero terribile mi imprigionò in una roulotte. Dalla finestra vidi Villaggio che correva urlando e pensai che per fare l’attore è fondamentale saper correre. Non so come riuscii a evadere e, per prima cosa, staccai un cavo, che si rivelò essere importante. Fui rinchiuso a chiave fino alla sera».
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto