Friuli Storia, quando si addensò su Fiume tutta la storia del Novecento

Raoul Pupo racconta il dramma della città adriatica e le contraddizioni dell’impresa dannunziana

Il Premio nazionale di storia contemporanea Friuli Storia, giunto alla VI edizione, è realizzato con il contributo della Regione Friuli-Venezia Giulia, della Fondazione Friuli, del Comune di Udine (quest’anno per la prima volta) e di Poste Italiane SpA, con la media partnership del Messaggero Veneto. I tre volumi finalisti di quest’anno sono “Terrore e terrorismo” di Francesco Benigno, “Storia dell’immigrazione straniera in Italia” di Michele Colucci e “Fiume città di passione” di Raoul Pupo, che presentiamo dopo avere intervistato l’autore.

UDINE. «A Fiume, piccola città in cima all’Adriatico, sembra addensarsi tutta la storia del Novecento europeo»: recita così la quarta di copertina di “Fiume città di passione” (Laterza, 2018), ultima fatica di Raoul Pupo. Il titolo utilizza le parole di Gabriele D’Annunzio, che impose all’attenzione internazionale, assieme al mito della «vittoria mutilata», anche la città quarnerina.

«La storia di Fiume – spiega l’autore – è un osservatorio privilegiato per leggere ciò che è stato il secolo scorso sia lungo la frontiera adriatica sia nell’Europa centrale»; e la sua sorte ricorda molto da vicino quella di altre «città cambiate» del secolo scorso (Danzica, Könisberg, Leopoli, Salonicco, Smirne…), mentre i fiumani si ritrovarono «al centro di un grande laboratorio del nuovo radicalismo europeo, luogo di condensazione fra i più appariscenti di quella guerra-rivoluzione che dal 1905 imperversava sul Vecchio Continente».

«Fiume – continua – è anche un esemplare con riguardo alla lunga crisi del primo dopoguerra, che alla frontiera adriatica è stata duplice: da una parte la distruzione dell’impero asburgico, con il passaggio del territorio da uno stato multinazionale agli stati nazionali (o meglio “stati per la nazione”), dall’altra la dissoluzione dello stato liberale italiano». Poi, negli anni ’20 e ’30 il fascismo ha cercato di fare della Fiume già cosmopolita una città italianissima, mentre invece nel secondo dopoguerra la nuova Rijeka è stata prima una grande città jugoslava ed infine, a partire dagli anni ’90, una città quasi completamente mononazionale croata». E grazie a questo libro, denso ma scorrevole, verifichiamo gli esiti tragici della «grande semplificazione novecentesca nella grande fascia dal Baltico fino al Mediterraneo»: infatti, «la terra delle pluralità linguistiche, culturali, religiose e nazionali è stata travolta, nel corso del secolo, da un’ondata di omogeneizzazione con costi umani, sociali e culturali altissimi».

Circa l’impresa di D’Annunzio, Pupo evoca l’immagine di «un caleidoscopio rutilante di colori, con un’enormità di contraddizioni». È vero infatti che essa appare come «un’esperienza di rivoluzione e liberazione»; ciò nondimeno, è anche «un’esperienza di eversione dello Stato liberale, di rigetto delle istituzioni rappresentative». Da un lato, poi, è «il trionfo dell’ultranazionalismo italiano»; dall’altro, però, D’Annunzio «vuole passare come redentore dei popoli coloniali oppressi». Lui e i suoi seguaci, inoltre, «sono violentemente anti-slavi»; eppure, «cercano di presentarsi come i paladini dell’indipendenza croata contro il regno dei serbi croati e sloveni». Occorre poi considerare che D’Annunzio parte «avendo alle spalle un progetto non solo suo, secondo il quale Fiume è un inizio per arrivare a Roma e innescare una svolta autoritaria»; nel contempo, però, la Fiume dannunziana è «il paradiso delle avanguardie libertarie, anarcoidi».

A Fiume il carisma di D’Annunzio «coagula per un po’ di tempo le tante esperienze contraddittorie», mentre Mussolini «gioca di sponda: si presenta in Italia come la voce di D’Annunzio, per acquistare legittimità, ma al tempo stesso spera che l’impresa fiumana fallisca, per non vedersi rubare spazio politico». Per sua fortuna, D’Annunzio «riusciva sì a intercettare ed esprimere il clima dell’epoca, ma non era affatto un abile politico»: così, a Fiume attuò «un regno della poesia al potere, una sorta di opera d’arte politica, ma destinata a vita breve».

Perdura tuttavia, e con il centenario del 1919 sale, l’interesse degli storici e del pubblico. «L’importante – avverte Pupo – è che la ricorrenza non divenga una celebrazione dell’impresa, che ha rappresentato un attacco alla democrazie, ma concorra alla rivisitazione critica di un grande fenomeno del Novecento, tutto da discutere». —




 

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