Gentile e l’Italia lacerata del ’43: tra lotta politica e guerra civile

Il professore emerito de La Sapienza domenica al Giovanni da Udine con Laterza Una riflessione sugli aspetti dello scontro interno che seguí alla caduta del fascismo

MARIO BRANDOLIN

Fu guerra civile o lotta di liberazione, quella che dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, acuitasi dopo l’8 settembre e l’invasione nazista, oppose in Italia fascisti e antifascisti? Un conflitto che segnò profondamente l’esito della guerra con la sconfitta del fascismo, e determinò la nascita della repubblica e di una democrazia costituzionale nel nostro paese. Di “Fascisti e antifascisti”, di come questa contrapposizione politica divenne poi contrapposizione in armi, parlerà domenica 27 al Giovanni da Udine alle 11, lo storico Emilio Gentile, professore emerito alla Sapienza di Roma, nell’ambito del ciclo di Lezioni di Storia organizzato dall’editore Laterza con la media partnership del nostro giornale, e dedicato quest’anno al tema della “Guerre civili”.

E allora la prima domanda che rivolgiamo al professore Gentile è proprio questa: fu guerra civile? «L’idea che quella tra fascisti e antifascisti fu una guerra civile è passata già da tempo, sin da quando uno storico che aveva partecipato alla Resistenza, Claudio Pavone, scrisse un importante libro, “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza”, in cui accettava la categoria della guerra civile, per interpretare gli avvenimenti tra fascismo e antifascismo dal 1943 al 1945. Idea che era nella consapevolezza stessa dei partigiani e dei partiti della resistenza, i quali già durante la loro lotta contro il fascismo e il nazismo parlavano di “guerra civile”. Perché quando cittadini di un stesso stato combattono la lotta politica con le armi, il termine più appropriato è, dall’epoca antica a oggi, “guerra civile”».

In questi anni c’è stata una grande polemica proprio su questa definizione della lotta antifascista. Perché? Forse che il termine “guerra civile” faceva paura, o perlomeno veniva vissuto in un’accezione negativa, quasi un insulto, rispetto a quello di Lotta di Liberazione. «Più che paura o insulto, la ragione era data dal fatto che “guerra civile” veniva usato dai fascisti per mettersi sullo stesso piano degli antifascisti, quasi a legittimare il fascismo nella sua lotta, a dire che in fondo la loro posizione era la stessa dei nemici: la pensavano diversamente sì, ma non per questo potevano essere considerati gli uni traditori e gli altri patrioti».

Lei parla di guerra civile, durata un ventennio e più. «Infatti, io partirò addirittura dal 1915, perché ritengo che la guerra civile del 1943/45 fu solo l’epigono di una guerra civile che in diverse forme era iniziata in Italia sin dalla contrapposizione tra neutralisti e interventisti. Fu una guerra civile fredda perché non era combattuta con le armi e non puntava all’eliminazione fisica del nemico. Ma sin da allora si parlò di “guerra civile”; a esempio in una lettera privata di uno storico liberale e poi antifascista, Adolfo Omodeo, il quale, contro il governo Giolitti, invocava una guerra civile per la rigenerazione d’Italia. Agli inizi del secolo scorso esisteva in Italia una contrapposizione verbale, che diventa violenza negli scontri politici del periodo immediatamente precedente l’entrata in guerra dell’Italia; e dopo la fina della guerra, si parlò di “guerra civile” quando si contrapposero, coloro che avevano combattuto, i reduci che daranno vita al fascismo e i socialisti che si intendevano arrivare alla dittatura del proletariato con la rivoluzione violenta contro il regime borghese sulla scorta di quanto avvenuto in Russia nel 1917. Per non parlare poi della bande armate che, nei primi anni ’20 portarono alla vittoria del fascismo e alla repressione che questi attuò contro i dissidenti».”

« Domenica 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria. Che significato ancora attribuire a questo giornata che corre il rischio di diventare una mera celebrazione della Shoah anche un poco retorica, se in Europa e non solo, stanno sempre più prendendo piede movimenti razzisti e antisemiti? «Il rischio c’è sempre. Ma non mi sembra si possa trasformare in retorica quello che è il ricordo di una tragedia disumana unica in tutta la storia, quella di sterminare, in parte riuscendoci, un intero popolo. Ricordare l’unicità della Shoah porta anche a ricordare altri eccidi: a esempio, quello perpetrato nel 1915 contro gli Armeni dalla Turchia, che ancora oggi si rifiuta di riconoscere quella studiata programmata eliminazione di gran parte degli armeni come genocidio». –



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