Gervaso: «Io e le donne friulane»

L'autobiografia dello scrittore che racconta la fidanzata udinese (e molto altro)

Il giubileo del fabulieren Roberto Gervaso lo ha celebrato con un’autobiografia spiazzante, che incrocia le pulsioni da bon vivant e l’attrazione dell’abisso. Ho ucciso il cane nero, suo cinquantesimo libro, edito da Mondadori, è la storia di una vita colorita e ricca di aneddoti, ma scandita da tre lunghe fasi di depressione. Dieci anni in cui solo l’abulia ha precluso il suicidio.

- Depressione ciclica, allora.

«A definirla “cane nero”, perché sbrana l’anima, è stato Curchill, che per fortuna nel ’40 stava bene. Ne soffrono dieci milioni di italiani, in gradi diversi. Tanti si sono uccisi per depressione: pensiamo a Hemingway, London, Zweig, Koestler, Pavese, Levi...».

- L’intelligenza e la sensibilità sono fattori di rischio?

«No, la depressione tocca anche i camionisti: è una malattia come le altre, ma priva di evidenza organica, con una sofferenza tutta interiore».

- Per Gervaso da cosa è scaturita?

«Da un’avventura galante. Nel ’56 incontro in treno Babette, bellissima stilista francese con il doppio dei miei diciott’anni. Mi racconta del suo mese sabbatico di eros, e ne consegue una straordinaria notte d’amore. Poi lei mi implora di restare, si dice pronta a lasciare il marito per me, ma io me ne vado».

- Incipit bizzarro per una storia di depressione.

«Quella arriva tre anni dopo, negli Usa, dove studiavo. Mi viene l’idea che possa essersi uccisa per colpa mia. Immaginiamoci, una come lei che doveva essersene fatti tanti, di uomini...».

- È un pretesto per il cane nero, che azzanna subito.

«Già. Mi riportano in Europa in barella. Al di là della base organica, il crollo della serotonina, c’era una causa scatenante più seria: mia madre si era separata da mio padre».

- Sindrome da abbandono?

«Manifestatasi poi anche nel 2007, quando Vittoria, mia moglie, è diventata nonna e si è polarizzata sui nipoti. Comunque allora sono stato aiutato da Montanelli, anche lui un grande depresso, che mi ha incoraggiato e fatto entrare al Corriere».

- Ergoterapia non proponibile tramite Asl.

«In via Solferino ho fatto il cronista di nera per due anni: uxoricidi e frontali sulla Milano Laghi, purché con almeno tre vittime. Poi sono caduto nelle mani di una ninfomane...»

- Ci sono destini peggiori. Qualcosa è successo anche a Udine, no?

«Premetto: sono per metà friulano, perché mia madre era una Poiana di Attimis, e sento molto più le radici della Piccola patria che non quelle calabresi, di parte paterna. A Udine sono sempre venuto volentieri: è la più deliziosa ed elegante delle città di provincia, e sì, alcune amanti, in città, ce le ho avute. E anche al Fogolâr furlan di Roma, qualcosa ho rimediato».

- Volevo ben dire.

«Le friulane, oltre che bravissime casalinghe, e oggi anche imprenditrici di vaglia, sono donne molto generose. Sempre, non solo nel talamo, e molto diversamente dai maschi, più schivi e chiusi. Ricordo in particolare una ragazza udinese che studiava dalle Orsoline o dalle Canossiane, a Verona. Avevo trent’anni, all’epoca, lei diciotto e ci incontravamo in occasione delle presentazioni librarie. Ne facevo tante, allora: il sabato sacrificavamo a Venere, l’indomani illustravo la mia ultima fatica. Il problema era che all’“Astoria” lei non voleva farsi vedere...».

- E allora?

«Mi venne in soccorso un professore di filosofia al liceo, che mi prestava la sua casa mentre la sorella, una pinzochera di prima forza, andava ai tridui, alle novene. Aveva un letto a parete, che un giorno scattò, facendoci provare un’adesione totale, mai sperimentata prima. Poi conobbi quella che sarebbe stata mia moglie, e ci lasciammo».

- Grande inclinazione per i friulani. E ancor di più per le friulane. Ma perché raccontare tutto ciò?

«Per esibizionismo, narcisismo e passione. Amo scrivere, e lo faccio a velocità astrale. Il libro l’ho messo giù in un mese. Del resto non avevo il bisogno di documentarmi».

- Che personaggio ne esce? In tre aggettivi.

«Ambizioso, egoista, vanitoso».

- Gigione no?

«No, è una fase che ho superato con disinvoltura, grazie alla lunga pratica di gigioneria».

- Dirsi “il più grande scrittore morente” non è da ipocondriaco?

«Mai stato ipocondriaco. Patofobo sì; poi mi sono specializzato diventando patofilo. Ho avuto un brutto tumore alla prostata, poi un intervento chirurgico a cuore aperto, durato sette ore. Mi metto a letto con una linea di febbre, entro con il sorriso sulle labbra in sala operatoria».

- Fede in qualcosa? Nel dubbio? Nel cinismo?

«Sono scettico, ovvero realista. E pessimista, cioè ottimista bene informato, che sa come andranno a finire le cose».

- Con un assillo fisso: l’eterno femminino, non solo nelle trasferte friulane.

«In verità il sesso non è mai stato una fissazione. Nei miei 42 anni di matrimonio sono stato piuttosto vivace, ora ho abdicato a ogni sovranità».

- Restando in tema di depressione, cito un’affermazione politica che la favorirebbe: “in democrazia gli eletti non sono peggio degli elettori”.

«Certo: l’italiano medio che acquista casa e si sente dire dal notaio: mi dia 500 mila euro, gli altri 900 mila sono già pagati, forse non ci sta? E i sei milioni di invalidi civili, ciechi che guidano, sordi che dirigono orchestre, muti che tengono comizi, paralitici che fanno jogging, dove li mettiamo?».

- Altra citazione: “l’Italia sta in piedi perché non sa da che parte cadere”. Adesso c’è il rischio che le venga data una spinta?

«Certo: prendo l’Atac, comprata dai cinesi, per andare allo stadio a vedere la Roma, di proprietà americana. Il settore alimentare l’abbiamo perduto quasi completamente: figuriamoci, i gianduiotti sono dei turchi! Cadremo sul lato del colonialismo, per noi quasi una vocazione».

- Renzi, venditore di fumo in technicolor, Gervaso dixit. Prima c’era quello in bianco e nero?

«Sì, ma lui era anche un venditore d’arrosto. Ai vegetariani, però. Berlusconi è stato tanto grande come imprenditore quanto unfit, come diceva l’Economist. Delegava ogni cosa a Letta, perché la politica non gli interessava proprio. Era il potere quello che amava».

- Ultimo punto la tessera P2. Je ne regrette rien?

«Assolutamente. Nel libro ripeto ciò che ho sempre detto: spontaneamente e con gioia sono entrato nella massoneria, perché interessato al tema. Poi volevo essere il primo a intervistare Gelli, ma mi ha fregato Costanzo. Non ho mai capito bene cosa sia successo dopo. Di una cosa però sono certo: né il sottoscritto, né Alighiero Noschese, nè Claudio Villa pensavano a un colpo di stato».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto