Giacomo Poretti in tour nei teatri del Friuli: «Ecco cosa accade quando un’app ci sostituisce»
Il comico in scena con Daniela Cristofori: «E a settembre un documentario sul Trio». Martedì 25 e mercoledì 26 marzo a Monfalcone (serata inaugurale del festival “Geografie”), giovedì 27 a Gemona, venerdì 28 a Codroipo. Il 7 aprile a Cividale, l’8 a Latisana e il 9 aprile a Maniago. Sabato 29 marzo, alle 18, al Giovanni da Udine

Giacomo (Poretti) è il più teatrale dei due soci Aldo Baglio e Giovanni Storti e, proprio per questo, sfugge volentieri al trio per battagliare da solo sui palcoscenici italiani. Il milanese di Busto Garolfo, paesello di quattordici mila anime, ha stretto un patto di scrittura con Daniela Cristofori.
Assieme alla signora si è fatto trovare pronto in scena per “Litigar danzando”, quindi per “Funeral home” e, ora, è il tempo di “Condominio mon amour”, pièce godibilissima sui danni della tecnologia applicata all’essere umano. Con lo stesso Poretti, Daniela Cristofori e Marco Zoppello, che firma anche la regia. Produzione: Teatro de Gli incamminati.
Il tour della commedia prevede alcuni pit stop regionali, a cura del ricco circuito Ert. Segnatevi le date: martedì 25 e mercoledì 26 marzo a Monfalcone (serata inaugurale del festival “Geografie”), giovedì 27 a Gemona, venerdì 28 a Codroipo. Quindi, il 7 aprile a Cividale, l’8 aprile a Latisana e il 9 aprile a Maniago. Sabato 29 marzo, alle 18, al Giovanni da Udine.
Giacomo, ci illumina il cammino?
«Volentieri. Si tratta di una riflessione sul mondo del lavoro che spesso sbanda, cambia direzione, non ha di certo un andamento regolare. E così io e Daniela ci siamo messi sotto per cercare di creare un qualcosa di intrigante al fine di sviscerare il problema ridendoci sopra. Con cautela, però. La questione è seria. Certe figure professionali scricchiolano sotto il peso di fattori esterni che minacciano l’umano: tipo gli algoritmi o le app, appunto».
Che poi siamo noi ad aver creato pericoli per noi stessi, piuttosto curioso come fatto, se non inquietante, direi.
«Proprio per questo ci siamo spinti a esplorare cosa potrebbe mai accadere se il custode di un palazzo, un giorno, fosse estromesso dal ruolo e sostituito da una applicazione. Non è fantascienza, magari lo fosse. Siamo vicini se non dentro un paradosso».
Dal palcoscenico arrivano segnali forti e chiari che incidono.
«Ne sono certo. Un saggio ha l’energia per diffondere un credo, il teatro è un mezzo di comunicazione altrettanto potente, che serve proprio per avvolgere gli spettatori di tematiche importanti così da creare un corto circuito utile al pensiero».
Insomma, l’uomo è estromesso dalla portineria.
«Eh sì, pare che un app faccia il suo lavoro costando decisamente meno».
Non è che l’intelligenza artificiale minaccia anche il mestiere dell’attore? Lei che dice?
«Non starei molto tranquillo. Alla tv e al cinema, guardi cosa ha fatto Trump con Gaza, è possibile manipolare tutto ormai e di esempi belli concreti ne abbiamo. Starei un pelino più sereno riguardo al teatro, essendo dal vivo. Ma vai tu a sapere che diavolerie potrebbero mai inventarsi per farci fuori?».
Anche lei è un figlio dell’oratorio, Giacomo?
«Nonostante ormai il luogo odori di vecchio, è stato nel Novecento uno dei posti più utili alla crescita della gioventù. C’erano un teatrino e il cinema, capisce? Siamo diventati adolescenti imparando l’arte. Io non l’ho messa da parte, anzi, l’ho proprio presa in prestito e usata per impormi».
Parafrasando Hitchcock lei è un uomo che ha vissuto due volte?
«In realtà sono arrivato al successo tardi rispetto alla tabella di marcia. Vivevo in una famiglia di operai ed era normale, alla fine delle medie, andare in fabbrica. Poi l’azienda fallì e mi ritrovai a piedi. Non si poteva stare senza lavorare e così fui assunto dall’ospedale come infermiere. E ci rimasi ben undici anni».
Poi avvenne l’incontro fatale con Aldo e Giovanni. Scusi, ma il trio esiste ancora?
«Ma certo che sì. Siamo investiti dagli acciacchi come tutti gli anziani e cerchiamo di uscire solamente quando le idee sono buone. Ci faremo vivi a settembre, fra l’altro, con un curioso documentario. E poi vedremo. D’altronde sono trentacinque anni di onorato servizio, ohi, c’è gente che con quegli anni di occupazione lì ci va in pensione dritta».
Chi di voi è il più creativo?
«Ah bella domanda, sa. Non le saprei rispondere. Diciamo che in quel momento siamo uno solo, non so come dire. Non c’è una gag di Giacomo e un’altra di Aldo. C’è una gag di Aldo Giovanni e Giacomo».
A quanti anni diventò un tifoso interista?
«A quattro, lo ricordo benissimo. Era il 1960. Tutti a casa tenevano per l’Inter. I miei mi regalarono il completo: maglietta, pantaloncini, calzettoni, scarpe e pallone in cuoio. Ricordo che rimasi vestito così per giorni tirando la palla sul muro. Secondo lei che squadra avrei potuto tifare per tutta la vita?».
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