Giaiotti, dalla falegnameria di Ziracco al palcoscenico del Met e della Scala

MARIO BRANDOLIN. Dalle tavole di un laboratorio di falegname di un borgo friulano a quelle dei palcoscenici più prestigiosi del mondo: questo il percorso umano e artistico di Bonaldo Giaiotti, basso, classe 1932, nato il 25 di dicembre in quel di Ziracco. Una carriera folgorante, costruita con tanti sacrifici e assoluta dedizione al canto, come racconta il bel volume del musicologo e critico Rino Alessi, “Bonaldo Giaiotti.La voce del Friuli”, in questi giorni nelle librerie per i tipi della casa editrice L’orto della cultura.
Una ricostruzione articolata tra una lunga conversazione con Giaiotti e sua moglie, la cantante Alice Weinberger, un’approfondita analisi del repertorio e della discografia di Giaiotti, e il contributo di importanti testimonianze come quelle del direttore d’orchestra Nello Santi o dei cantanti Carlo Bergonzi, sodale di Giaiotti in molte avventure operistiche e Ferruccio Furlanetto, che al grande basso friulano deve «consigli e parole fondamentali per la mia carriera internazionale». «Cantavo in chiesa a Ziracco – esordisce Giaiotti nel suo racconto – e, ragazzino, mi divertivo a fare imitazioni delle persone, cosa che mi capita di fare ancora oggi. Un giorno facendo l’imitazione di un basso che avevo sentito alla radio fui notato da una signora che mi presentò alla direttrice di un coro di Udine, Ada Kreinz. Fui preso come tenore, poi come baritono e infine mi dissero che ero, quello che poi sono diventato: un basso. Ed è li che è cominciato il mio calvario…», scherza. Dapprima studiando a Trieste con Luigi Toffolo, «che mi mollò dopo un po’ dicendomi che avevo la gola stretta», quindi trasferendosi a Milano dove debuttò nel 1959 al teatro Nuovo in “Manon” di Massenet e “La Bohème” di Puccini. «Ma – ancora Giaiotti –, finito il debutto, tornai a lavorare da falegname. Fu allora che mi rubarono gli attrezzi, cosa che interpretai come un segno del destino, a non riprenderli più in mano. Così continuai con più lena lo studio del canto, feci nuove audizioni e fui scritturato, a Lugano per la mia prima “Forza del destino” di Verdi poi a Vigevano per una “Lucia di Lammermoor” di Donizetti dove cantavo con Piero Cappuccilli». Qui lo sentì un collaboratore del direttore del Metropolitan di New York Rudolf Bing, il quale Bing lo scritturò con un contratto triennale al Met dove debuttò nel 1960 come Gran Sacerdote di Belo nel “Nabucco” di Verdi. Cui ritornerà molto spesso nella sua carriera ma nel più impegnativo ruolo di Zaccaria. Al Metropolitan Giaiotti consumerà gran parte della sua carriera, anche se con molte incursioni in Europa e nel resto del mondo, dalla Scala di Milano all’Arena di Verona, Zurigo, Oviedo, Madrid, Bilbao, Toronto, Vienna, Tokio… Considerato «l’ultimo vero basso tonante di scuola italiana», così il maestro Nello Santi che lo volle nel 2006 al Massimo di Palermo per “Turandot”, ultima recita di una carriera pluriquarantennale, Giaiotti ha affrontato i ruoli più importanti e impegnativi per un basso: da quelli verdiani – del “Don Carlo”, del “Nabucco”, de “I vespri siciliani”, dell’ “Ernani”, di “Macbeth”, del “Trovatore”, del “Rigoletto”, di “Simon Boccanegra” –- a quelli wagneriani in
“Lohengrin”, “Parsifal”, “Tannhauser”, al “Mefistofele” del “Faust” di Gounod, oltre a numerose parti in concerti e Messe da requiem. Tutti ascoltabili nei dischi, non numerosissimi in verità, che Giaiotti ha inciso. Perché il suo vero luogo d’elezione è stato il palcoscenico le sue tavole, i suoi trucchi, i suoi costumi, come testimonia il nutrito apparato iconografico del volume di Alessi, dal quale è possibile anche ricostruire il gusto di un’epoca irripetibile e davvero gloriosa per il teatro d’opera, di cui Giaiotti fu senza dubbio alcuno uno dei protagonisti più amati.
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