Giornate del muto: cento anni dopo il film che racconta la vita degli Inuit

Nel centenario della sua uscita nelle sale cinematografiche le Giornate del Cinema Muto di Pordenone rendono omaggio a un classico del cinema documentario: “Nanook of the North” (“Nanuk l'eschimese”, 1922) di Robert J. Flaherty.
I paesaggi del Michigan, in cui nacque nel 1884 da una famiglia irlandese, ispirarono a Flaherty un precoce interesse per la natura e per i rapporti tra uomo e natura.
A venticinque anni, dopo i suoi studi di mineralogia, finanziato da una fondazione interessata alla scoperta di eventuali giacimenti minerari, si dedica all'esplorazione delle terre di Baffin, isole dell'arcipelago artico canadese ricoperte di ghiacci.
Nel corso delle sue spedizioni Flaherty porta con sé una macchina da presa. Se in un primo momento si serve di essa per riprendere aspetti del paesaggio e degli abitanti di quelle terre glaciali, ben presto si sviluppa in lui un crescente interesse di carattere etnologico e una passione per il linguaggio cinematografico, convinto del fatto che l'« uomo nel ventesimo secolo ha scoperto che le immagini in movimento consentono un più verosimile e comprensibile sistema di comunicazione rispetto alla parola stampata. Il film ha dato all'umanità il suo primo linguaggio universale».
Decide quindi di realizzare un intero film sulla vita quotidiana degli Inuit (“eschimese”, che significa “fabbricante di racchette da neve”, è considerato un termine dispregiativo) e riesce a trovare un finanziamento grazie alla ditta Révillon Frères di Parigi, che aveva una rete commerciale per l'acquisto di pellami e pellicce nell'estremo Nord del Canada.
Il punto d'approdo dell'impresa cinematografica di Flaherty è il minuscolo centro abitato di Port Harrison (oggi Inukjuak, nel Québec) nella parte nord-orientale della Baia di Hudson, dove giunge dopo due mesi di viaggio con il suo equipaggiamento (tra cui due cineprese Akeley, adatte ad essere utilizzate nel freddo artico) caricato su piccoli velieri e canoe.
Sul posto ingaggia una dozzina di Inuit, tra i quali sceglie come protagonista Allakariallak (che nel film diventerà Nanook), con cani, slitte, kayak e arnesi da caccia.
Per girare il suo film vive a stretto contatto con loro dall'agosto del 1920 a quello dell'anno successivo, facendo tesoro dei loro suggerimenti e consigli per le riprese da effettuare.
Per mezzo della pellicola Flaherty si propone di testimoniare con immediatezza e sincerità la lotta quotidiana per la sopravvivenza di un piccolo gruppo umano in un ambiente naturale immenso, inospitale, estremo a causa del clima più gelido e difficile del mondo, dove non cresce niente e la vita dipende da ciò che si riesce a procurare con la caccia e la pesca.
La macchina da presa segue con pazienza minuziosa e precisione, senza enfasi o retorica, ogni atto di Nanook e della sue gente, ad esempio la costruzione di un igloo, la cattura di una foca, la ricerca di un riparo nella vasta pianura ghiacciata durante una tormenta. Quando il film di Flaherty, dapprima rifiutato dalle grandi case cinematografiche, viene distribuito dalla Pathé Exchange e proiettato a New York, riceve un'accoglienza tiepida; poi invece riscuote un notevole successo in Europa, soprattutto a Londra, dove tiene il cartellone per sei mesi. Al Teatro Verdi di Pordenone il film sarà accompagnato dal vivo dal quartetto di flauti dell'Orchestra San Marco con le cantanti di gola Inuit (provenienti dal Canada) Lydia Etok e Nina Segalowitz e i solisti Alberto Spadotto e Anna Viola.
Il canto di gola Inuit è una forma di performance musicale tradizionalmente composta da due donne che si dispongono faccia a faccia emettendo suoni gutturali complessi. In origine era una forma di intrattenimento tra le donne Inuit mentre gli uomini erano a caccia ed era considerato una specie di gioco di tipo vocale che terminava quando una delle due donne rimaneva senza fiato o scoppiava a ridere.
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