Gli 80 anni del violinista Uto Ughi: «Continuo a studiare ogni giorno»
Domenica 21 gennaio è il suo compleanno: «Ora faccio soltanto una quarantina di concerti, non mi piace suonare troppo»

«È proprio quello a cui non tengo. Gli anni passano, la vita continua». Davvero è impossibile, però, non soffermarsi sulle ottanta candeline che spegne oggi, domenica 21 gennaio, Uto Ughi, il più celebre violinista italiano.
Anche perché con il Friuli Venezia Giulia il grande musicista ha sempre avuto un legame intenso, esibendosi spesso in regione, fin dai suoi esordi lontani, senza dimenticare le sue amicizie, come quella con Renato Zanettovich, mitico componente del Trio di Trieste scomparso centenario nel 2021. E senza contare le sue radici familiari, visto che il padre Bruno era un avvocato di Pisino, in Istria.
Maestro, non ha previsto di festeggiare nemmeno questa volta?
«I compleanni li ho sempre passati in sordina: costituiscono occasioni per ripensare a sé stessi e non sempre i ripensamenti sono buoni. In altre parole, non ho mai festeggiato, tranne che una volta a Cascais, dov’ero ospite della marchesa de Cadaval, amante dell’arte che aveva fatto molto per la vita musicale del Portogallo. Nell’occasione, aveva invitato re Umberto. Con Martha Argerich sono stato il protagonista di una serata e proprio re Umberto ci aveva voltato le pagine. È stato un incontro emozionante e suggestivo. A proposito di compleanni, però, ne ricordo uno di Pablo Casals, gigante del violoncello».
Lo racconti.
«Aveva 84 anni e all’Accademia Chigiana di Siena ha tenuto un seminario su Bach. L’età non si sentiva: invece, si sentiva la freschezza. Illustrava la musica in maniera straordinaria, immaginifica. Ha spiegato una Suite per il suo strumento dicendo che si tratta di una festa di campane in un villaggio dell’Andalusia. Allora l’ha eseguita e davvero si aveva la sensazione di una festa di paese».
La sua agenda è sempre intensa?
«Faccio una quarantina di concerti all’anno. Un tempo ne facevo molti di più. Ora non mi piace suonare troppo. Cerco sempre di migliorare, studio parecchio. Nella musica c’è sempre un anelito verso la bellezza, il perfezionamento».
Quante ore passa quotidianamente al violino?
«Dipende dal programma che devo affrontare. Comunque, le ore non basterebbero mai. Anche perché nella vita non si possono trascurare i rapporti umani e le passioni. Ogni giorno si impara qualcosa dalle persone, dalle letture. Per esempio, ho un’ammirazione sconfinata per Claudio Magris. Ho letto parecchi suoi libri che mi danno una forte carica di ispirazione».
Il suo entusiasmo per la musica, insomma, è quello di sempre.
«Non solo: viene accresciuto dal fatto che c’è una decadenza musicale da far paura. Nelle scuole, per la musica non è stato fatto nulla, non c’è stato alcun progresso per l’educazione musicale dei giovani: per le nuove generazioni, la musica è il festival di Sanremo. Ma è triste che il Paese che ha dato i natali a grandi compositori e grandi musicisti non abbia dato peso all’insegnamento. Per fortuna abbiamo avuto interpreti che hanno lasciato un’impronta fondamentale. Ma la decadenza c’è eccome e la si vede anche nel pubblico che va ai concerti».
Lei ha costituito di recente la Fondazione Uto Ughi. Per quali ragioni?
«Proprio per tentare di dare una fisionomia alle mie aspirazioni di insegnamento della musica nelle scuole che, appunto, ora è praticamente nullo. Con una fondazione si possono realizzare corsi di studio e altre iniziative. Spero che ottenga validi risultati. L’importante è valorizzare i giovani. In Italia abbiamo il numero più alto di conservatori e il minimo numero di orchestre giovanili. Ciò è deprimente. Vuol dire che per le nuove generazioni non ci sono sbocchi lavorativi».
Cosa ne pensa di Beatrice Venezi, direttore d’orchestra particolarmente vicino al governo che un mese fa ha interpretato Il Flauto Magico al Verdi di Trieste?
«Non l’ho mai sentita dal vivo. Ma la musica non è una questione di ambienti di destra o di sinistra. O la si fa con impegno e con devozione o è meglio lasciarla perdere. Farne una bandiera politica è ridicolo».
Sabato 20 gennaio cadevano i dieci anni della scomparsa di Claudio Abbado. Che legame ha avuto con lui?
«L’ho conosciuto in Venezuela. Aveva una grande ammirazione per il sistema Abreu che, attraverso la musica, ha salvato moltissimi ragazzi dalla malavita e dalle difficoltà. Abbiamo trascorso una settimana assieme, un’esperienza affascinante. Si interessava molto alla causa dei giovani, che, a loro volta, lo amavano molto. Non era estroverso, era piuttosto timido, ma con le nuove generazioni si apriva, mostrando una seconda natura. Non a caso gli piaceva lavorare con le orchestre giovanili».
Trieste per lei è una città del cuore.
«Era da poco tornata all’Italia, quando ho dato il mio primo concerto con orchestra. Al teatro Verdi ho suonato Mendelssohn. Dirigeva una donna: Carmen Campori. Poi, il rapporto con la città è diventato stretto, anche se manco da Trieste da un po’ di anni. Ma in regione venivo spesso anche con i Solisti Veneti, ma dopo la scomparsa di Claudio Scimone non ho più avuto contatti con loro. Mi dispiace, perché la nostra era una collaborazione intensa».
Che importanza ha avuto l’amore nella sua vita e quanto l’ha dovuto sacrificare per la musica?
«Non ho mai sacrificato l’amore in favore della musica. L’amore è la molla che ci sostiene in tutto l’arco della vita. Una vita senza amore sarebbe sterile, inutile. La musica non è altro che un arricchimento ulteriore dell’amore»
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